«Mi arrabbiavo, eccome se mi arrabbiavo con lui, perchè non capivo le sue ossessioni, i suoi comportamenti. Era cambiato. Sembrava che mi odiasse, quando c’eravamo sempre amati. Erano liti infinite». Teresa, 73 anni, elegante signora con un filo di perle al collo, abita in un paese dell’Ovest Vicentino. Si commuove raccontando l’esordio, 14 anni fa, della malattia d’Alzheimer del marito Gino, da tre anni in una casa di cura. «La scelta di trasferirlo in una dimora per anziani mi ha distrutto. Mi sentivo terribilmente in colpa. Ma non ce la facevo più fisicamente. È rimasto a casa con me per 10 lunghi anni, l’ho curato e coccolato come fa la mamma con il suo bambino e rifarei tutto» racconta. «La vita dei familiari che assistono un malato di Alzheimer cambia drasticamente e le fatiche sono enormi».
Signora Teresa, quali sono stati i primi sintomi della malattia di suo marito?
«La situazione è degenerata quando è andato in pensione e ha chiuso l’attività commerciale. Ha voluto portare tutti i mobili del negozio in cantina. Stava giù tutto il giorno, pensava che quella fosse ancora la sua attività . Non usciva mai di casa. Mi diceva che non poteva andare via perché poteva arrivare qualche cliente. Io mi arrabbiavo, ci scontravamo. Non gli andava bene niente, era colpa mia per tutto, mi ero messa in testa che mi odiasse. I primi tre anni sono stati terribili».
Tre anni senza chiedere aiuto?
«Davamo la colpa alla depressione. Non capivo e non pensavo che fosse demenza. Mio marito nascondeva i sintomi. Pensavo che il tempo sistemasse le cose. Quanti pianti infiniti. Poi, però, qualcosa è cambiato».
Che cosa è cambiato?
«Eravamo in cantina, sette anni fa. Rivolgendosi a me disse ‘Questa signoraavrà freddo, è meglio andare al caldo’. Non mi riconosceva più. Da quel momento non mi ha più riconosciuta. Decidemmo di prenotare una visita specialistica. Il medico ci disse che la malattia era già avanzata e che sarebbe solo peggiorata».
Come si è comportata?
«Ho cambiato atteggiamento nei suoi confronti. Ho detto ai miei due figli: ‘Se fino ad oggi le mie priorità siete stati voi, ora la priorità è il papà ’ e ho cominciato a prendermi cura di lui 24 ore al giorno. È sempre stato un uomo buono, gentile».
Quali sono le fatiche principali del caregiver (colui che si prende cura ndr) di un malato di Alzheimer?
«La mancanza di una vita propria e la solitudine. Mia figlia ci abitava sopra e decise di trasferirsi. Non l’ha fatto con cattiveria, ma per dolore. Non riusciva a vedere suo padre trasformato e sua madre stressata. Mio figlio vive all’estero. È molto stancante perché la notte si dorme poco, un occhio è sempre mezzo aperto. Gino si alzava di notte, a volte bagnato. Dovevo lavarlo e cambiarlo. Se tornassi indietro chiederei auto prima. Se ci fossimo mossi per tempo avrei potuto aiutarlo con i cerotti per rallentare la malattia».
In casa come l’ha curato?
«Solo con gli antidepressivi. Ma lui non li voleva. Mi diceva: ‘Non sono pazzo’. Era difficilissimo farglieli prendere».
L’Alzheimer per certi versi è ancora un tabù?
«La malattia fa paura e molti si vergognano a parlarne. Gli amicispariscono perché non sanno come comportarsi, che cosa dire. Vedono la trasformazione e non riescono a rapportarsi. Per fortuna io non mi sono mai vergognata. Gestivo un orto in comunità , era la mia passione. L’ultimo anno portavo Gino con me. Parlavo con le altre persone, spiegavo loro della demenza e lo hanno accettato. Anzi. Le amiche lo controllavano e mi avvertivano se usciva o faceva cose strane. Ho trovato una buona collaborazione. Quando mi sono aperta al mondo non ho perso amici, anzi, ne ho trovati di nuovi».
Suo marito perse la cognizione del tempo e del luogo?
«Pensava abitassimo a Montebelluna, suo paese d’origine. Io ero la sua ombra. Non mi riconosceva ma si fidava ciecamente. Passeggiavamo spesso e i vicini scherzando dicevano: ‘Ecco i morosetti’».
Non può aver fatto tutto da sola. Chi l’ha aiutata?
«Mio fratello. Il sabato veniva a prenderlo e lo portava in giro. Così potevo fare i lavori di casa. Poi ho avuto due persone che mi davano il cambio per un paio d’ore al giorno. Nonostante le fatiche non mi è mai pesato prendermi cura di mio marito. Dico sempre che l’energia è arrivata dall’alto. Le mie due mamme (il padre, rimasto vedovo da giovane, si è risposato ndr) mi sostenevano, una a destra e una a sinistra. La Madonna, se necessario, mi tirava su dal copìn. Tanti mi chiedevano ‘Ma come fai?’ È una domanda che non ho mai capito. Ho trovato conforto anche nell’associazione Ama, Malattia di Alzheimer Ovest vicentino. Me ne ha parlato per la prima volta mia cognata. Ero scettica. Il primo incontro, sentendo le altre storie, ho pianto tanto. Sono anni che non perdo un incontro. Ho trovato supporto umano e professionale».
Quando e come arrivò la scelta di portare Gino in una casa per anziani?
«Il mio fisico ha ceduto. In passeggiata mi sono sentita male. Anche se il mio cuore avrebbe continuato, il mio corpo non ce la faceva più. Era più di un anno che i miei figli mi dicevano di portarlo in una casa di riposo. Mi sento ancora in colpa».
Perché in colpa?
«Avevo promesso a Gino che non lo avrei mai mandato in una struttura. Gliel’ho promesso un pomeriggio, ero in braccio a lui. Dopo averlo accompaganto nella casa di riposo ho dormito per sei mesi sulla poltrona in camera. Non riuscivo a stendermi nel letto senza averlo al mio fianco. Sentivo terribilmente la sua mancanza. A volte ancora adesso mi sveglio di notte e sento il suo respiro. Quando sono a casa che sto leggendo, lavorando con l’uncinetto o facendo le parole crociate sento la sua presenza, mi sembra di sentirlo arrivare. Mi consolo ripensando a una delle nostre passeggiate, quando mi prendevo cura di lui. Tornando dall’orto si fermò e mi disse ‘Vuoi sposarmi?’. Provai un’emozione indescrivibile. È sempre stato un signore. Adesso Gino sta bene, è sereno. Non parla, borbotta, ma sorride. Vado a trovarlo ogni giorno. Per le restrizoni Covid ci incontriamo in una stanzetta. Lo coccolo, ci abbracciamo e baciamo. Mi dà i baci belli, quelli con lo schiocco ».


