«Vicenza è casa. Qui non ho incontrato nessuna persona, come dire, brutta. Dico sul serio: è una cosa che sento». Emran mette la mano all’altezza del cuore e guarda dritto negli occhi, a sottolineare che quanto dichiara non è una frase tanto per dire. Emran Ebrahimi, nell’ufficio portineria della Diocesi di Vicenza da giugno dell’anno scorso, è nato nel 1995 a Kabul, in Afghanistan, parla cinque lingue – inglese e olandese, pashtun e persiano, oltre naturalmente all’italiano – ed è musulmano.
Il volto sorridente e paziente di Emran è uno di quelli che si incontra quando si arriva alla portineria del Centro Onisto, entrando da viale Rodolfi. Ebrahimi è lì da un anno, con orario spezzato alcuni giorni a settimana e nei weekend. La sua storia “vicentina” inizia nella primavera-estate del 2021. Sono le ultime settimane della presenza americana – e delle forze della Nato – in Afghanistan. A maggio le truppe statunitensi avviano il ritiro, in concomitanza del quale le forze talebane lanciano attacchi in più zone del Paese riconquistando la parte settentrionale. Ad agosto anche la capitale, ormai accerchiata, cade e viene conquistata dai fondamentalisti islamici. «Lavoravo come tecnico informatico all’ambasciata italiana a Kabul, da studente ho frequentato una scuola di informatica e progressivamente sono riuscito a trovare un lavoro in quella sede. Quando i talebani hanno preso il potere, il 15 agosto 2021, siamo scappati. Sono riuscito a venire via, qui in Italia». Emran racconta dell’arrivo in Italia assieme ad altri 11 afgani, alcuni dei quali suoi familiari, grazie all’asilo politico. Inizialmente, il gruppo è stato accolto «con il progetto “Cas”. Siamo arrivati a Roma, poi spostati a Sanremo dove abbiamo fatto un periodo di isolamento per il Covid. Poi sono stato destinato a Vicenza e qui, fortunatamente, ho trovato lavoro come operaio in un pastificio». L’afgano racconta dei primi temi nel capoluogo berico. «Facevo il lavapiatti in cucina, aiutavo a produrre la pasta fresca, aiutavo nelle pulizie. Anche in questo, ho avuto fortuna: all’epoca parlavo solo inglese ma in cucina c’era chi lo parlava bene così non avuto problemi – ricorda – dopo tre mesi però mi hanno detto, “Emran, da adesso parliamo solo italiano”. E un po’ alla volta l’ho imparato. Sono molto portato per le lingue, in madrepatria imparai inglese e olandese per interesse personale». Con un reddito, progressivamente l’afgano è uscito dal sostegno del progetto di protezione internazionale ed è riuscito a rendersi autonomo. «Ho frequentato la scuola serale di italiano, arrivando al certificato A1, poi però ho dovuto smettere perché non avevo più tempo: un amico mi aveva parlato del servizio civile, ho provato a farlo contemporaneamente al lavoro in pastificio». Assegnato alla cooperativa sociale “Agendo”, Emran ha collaborato in particolare «con il negozio di alimentari nelle vicinanze dello stadio Menti. Ci lavorano dei ragazzi con sindrome di Down: vado ancora a trovarli di tanto in tanto». L’operosità del giovane è proseguita anche dopo maggio 2024, quando ha cessato il rapporto di lavoro con il pastificio. Per passaparola, «ho trovato un lavoro temporaneo in un’azienda che svolge servizi di pulizia e portineria. Fra i clienti ha la diocesi. Inizialmente doveva essere di pochi mesi, poi è diventato stabile. Inizialmente non conoscevo questo lavoro, ho dovuto imparare tutto: ora penso – osserva Emrani – che la portineria sia un luogo importantissimo. Non solo questa, tutte: qui le persone cercano una risposta. E per me non c’è alcun problema a lavorare insieme ai cristiani, in questo luogo che è al centro della loro religione».
La storia prosegue con un matrimonio: nel frattempo infatti il giovane afgano si è sposato con una connazionale. «Mia moglie vive negli Stati Uniti, ci siamo sposati qualche mese fa. Penso di raggiungerla – osserva – e sì, sappiamo che sarà difficile vivere negli Usa, ma pensiamo di riuscirci». Nel cuore, naturalmente, rimane anche il martoriato Paese nel centro dell’Asia, nei secoli passati fiabesco crocevia di commerci di spezie e zafferano. «Speranza per l’Afganistan? Speriamo in un miracolo da 60 anni – avverte -. E non c’è stato. Spero, certo, che andrà bene e che un giorno potrò tornare. Ma bisogna pensare con la testa. E la testa, per adesso, dice “Emran per ora devi dimenticare l’Afghanistan».
Andrea Alba
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