Un episodio curioso di cui è stata data una spiegazione ancor più curiosa. Una delegazione formata dal commissario europeo per le migrazioni e dai ministri degli interni di Italia, Grecia e Malta è stata respinta dalla Libia in quanto formata da “persone non gradite” e costretta dunque a risalire in aereo e a rientrare in patria. L’episodio è accaduto lo scorso 8 luglio all’aeroporto di Bengasi e da molti è stato letto con amara ironia come una sorta di pena del contrappasso rispetto alle politiche dei respingimenti dei migranti messe sempre più di frequente in atto da molti governi europei. Il ministro Piantedosi, piuttosto piccato, ha spiegato al TG1 l’incidente diplomatico definendolo un semplice e non meglio precisato “eccesso di zelo”. Legittimo chiedersi da parte di chi. Forse di un funzionario libico troppo ligio nel verifica re timbri, visti e passaporti?
Se così fosse stato, l’episodio sarebbe risultato indubbiamente divertente, ancor più se ricordiamo che Bengasi è la capitale della Cirenaica, ex colonia italiana. Piantedosi, come il conte Ciano, privato del suo posto al sole. Ma pare che ad essere “zelanti” non siano state in realtà le autorità libiche, quanto piuttosto gli stessi funzionari europei che, provenendo da Tripoli, si sarebbero rifiutati a Bengasi di essere ricevuti in forma ufficiale da esponenti del para-governo locale di Khalifa Haftar (non riconosciuto dalla comunità internazionale) causando così l’immediata espulsione della delegazione.
Ma a questo punto pare lecito porsi allora un’altra domanda: perché la delegazione europea, dopo aver interloquito con il governo ufficiale a Tri poli, ha ritenuto necessario recarsi anche a Bengasi, salvo poi tirarsi in dietro quando la visita sarebbe potuta apparire come una imbarazzante legittimazione del potere di Haftar?
Che la Libia sia caduta nel caos dopo la fine del regime di Gheddafi è cosa risaputa. Dopo dieci anni di guerra civile il Paese risultò, com’è ancor oggi, diviso in due: ad ovest il governo di Tripoli (che, per quanto riconosciuto dall’Onu non ha nulla di democratico e resta in piedi solo grazie all’appoggio dell’esercito regolare e di varie milizie armate); a est, a Bengasi, un parlamento fantoccio guidato dal clan di Haftar, amico di Putin e coinvolto in spregiudicati e assai remunerativi traffici internazionali di armamenti verso il Sahel. Un equilibrio fragilissimo dunque, ma comunque garante di importanti interessi economici e geopolitici. Una polveriera la cui esplosione danneggerebbe moltissimo gli interessi occidentali, sia per le ripercussioni sul mercato petrolifero che, soprattutto, sul “contenimento” dei flussi migratori dall’Africa verso l’Europa. E qui può trovare risposta forse la nostra domanda.
Negli ultimi dieci anni, come è noto, il governo di Tripoli ha ricevuto dall’Unione Europea più di 700 milioni di euro per fare della Libia la nostra frontiera esterna, cioè, detto in modo semplice, per impedire con ogni mezzo ai migranti di partire dalle proprie coste verso il nostro continente. I metodi applicati dalla guardia costiera e nei campi di raccolta libici sono stati più volte tristemente documentati da varie organizzazioni non governative. Ma da alcuni mesi, nonostante la “barriera libica”, le partenze dei migranti, soprattutto dai porti orientali, quelli nel territorio sotto il controllo di Bengasi, sono notevolmente aumentate. Da qui la probabilmente la recente “missione” in Libia della delegazione dei ministri degli interni di Italia, Grecia e Malta (primi paesi di sbarco dei migranti). La sensazione è che i nostri fossero disposti a trattare anche con Haftar pur di far barriera contro i migranti, ma di non averlo voluto fare alla luce del sole come Bengasi ave va cercato di fare, cercando di volgere le necessità europee a favore di un proprio riconoscimento internazionale. Davvero troppo zelo, signor ministro!
Alessio Giovanni Graziani, donalessio@lavocedeiberici.it
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