In queste settimane molte comunità cristiane della diocesi hanno ricevuto l’annuncio che da settembre vivranno un cambio di parroco. I vecchi preti in tale occasione sentenziavano con saggio realismo e un po’ di sana autoironia che ogni parroco fa contenta mezza parrocchia quando arriva e l’altra metà quando va via.
L’idea di poter piacere a tutti non solo è impossibile, ma forse costituisce anche una vera e propria tentazione diabolica, come sembra suggerire Gesù nel Vangelo: “Guai se tutti gli uomini diranno bene di voi…” (Luca 6, 26). Aldilà delle normali simpatie o antipatie dettate dal carattere di ciascuno e dalle diverse sensibilità, compito del pastore è infatti anche quello di richiamare, correggere, vigilare sulle dinamiche relazionali, l’uso dei beni, l’i spirazione evangelica dell’agire pastorale, i piccoli “potentati” che a volte vengono a crearsi nelle singole comunità parrocchiali. E questo, per quanto fatto nella gratuità e nella carità, a volte può non essere compreso, disturbare, infastidire soprattutto gli assertori del “si è sempre fa o così”, difensori il più delle volte non di tradizioni buone, ma di piccoli confortevoli orticelli personali. Certo tra costoro possono esservi gli stessi presbiteri, il cui ministero di parroco fino a non molto tempo fa era vissuto secondo un principio di inamovibilità che li rendeva, nel bene e nel male, monarchi assoluti della parrocchia loro affidata, in una logica avvalorata dal sistema dei benefici parrocchiali, ultimo residuo nel mondo moderno di un’organizzazione ancora feudale del territorio e della società. Una concezione crollata negli ultimi quarant’anni sotto i colpi di piccone della riforma del sostentamento del clero (1985), della secolarizzazione e della mobilità delle persone, della contestazione del modello patriarcale e dunque anche di certo paternalismo ecclesiastico, del drastico calo del nume ro di sacerdoti e della conseguente creazione delle unità pastorali.
Mutazioni culturali, sociali ed ecclesiali tuttora in corso e che ancora generano in taluni (sia presbiteri che laici) spaesamento e crisi d’identità, ma offrono anche la possibilità di una benedetta riforma della Chiesa in senso evangelico: meno potere, meno visibilità, meno riconoscimento sociale (vorrei poter dire anche meno denaro, ma per ora l’8perMille ci rende ancora categoria abbastanza garantita in Italia…) possono rendere i preti di oggi più simili ai discepoli mandati da Gesù nella vasta messe del mondo, scalzi e senza bisaccia, come agnelli in mezzo ai lupi. E anche questa richiesta ad essere disponibili in modo periodico ad un cambio di parrocchia aiuta ad evitare che il servizio divenga potere, la passione evangelica ripetitiva e stanca gestione dell’esistente, le virtù mere abitudini.
Diceva il vescovo brasiliano Helder Camara: “Quando il tuo battello, ancorato da molto tempo nel porto, ti lascerà l’impressione ingannatrice di essere una casa, quello è il momento di prendere il largo!”. Ci sono altri villaggi, altre pecore, altri mari che attendono da te l’annuncio del Regno. Oggi, per i motivi già ricordati, il cambio del parroco non è più un evento come lo era in passato. La maggior parte delle persone che vivono in quel dato territorio forse neppure se ne accorgeranno. La cura pastorale condivisa con altri presbiteri e l’essere in molte comunità apostolo itinerante anziché pastore residente, depotenzia l’impatto emotivo del distacco e del cambiamento. Eppure qualche lacrima sarà versata, sia da chi parte, sia da chi resta. Lacrime preziose perché segno di relazioni paziente mente tessute, di bene generosamente seminato, di esperienze e momenti, tristi o lieti, gratuitamente condivisi. Avvicendamenti da vivere con fede, da accompagnare con delicatezza, che ci restituiscono la bellezza e l’importanza della cura pastorale
Alessio Giovanni Graziani, donalessio@lavocedeiberici.it
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