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Paolo Dall’Oglio, 5 anni fa il rapimento

30 Luglio 2018
in Chiesa, In primo piano
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Paolo Dall’Oglio, 5 anni fa il rapimento

“Paolo dove sei, con chi sei, stai parlando o stai tacendo, magari hai qualcuno che ti sta ascoltando. Forse hai paura lì da solo, chissà cosa pensi. I tuoi silenzi sono per noi misteri, i tuoi ricordi vanno e vengono profondi tra i pensieri… Ma tu per noi hai già vinto…”.

Sono le parole del brano rap dal titolo Abuna Paolo, composto dal musicista Pietro Dall’Oglio, fratello del gesuita Paolo, sequestrato a Raqqa (Siria) il 29 luglio di cinque anni fa. Da quel giorno sulla sua sorte si sono rincorse tante voci ma senza nessuna conferma. Padre Paolo Dall’Oglio, fondatore della comunità monastica siriana di Mar Musa, si era recato nella città, allora capitale siriana dello Stato Islamico (Isis), per prendere parte, il 28 luglio, a un raduno promosso da studenti locali. In un video della manifestazione si vede padre Dall’Oglio invocare libertà, unità e cultura per la Siria e i suoi abitanti. Il giorno dopo il gesuita si recò nel quartier generale dello Stato Islamico per poi scomparire senza lasciare traccia. Impegnato nel dialogo interreligioso, padre Dall’Oglio fu anche espulso, nel 2012, dal regime del presidente Assad. A cinque anni dal suo rapimento il Sir ha intervistato il fratello, Pietro Dall’Oglio.

Cinque anni dopo il rapimento di suo fratello Paolo, come vive questa attesa?

«Con trepidazione, dispiacere e preoccupazione. Speriamo che le Istituzioni stiano seguendo il caso. Io immagino di sì».

La caduta di Raqqa, lo scorso ottobre per mano dei Curdi, ha aperto un qualche spiraglio sulla sorte di suo fratello, dei testimoni o ex combattenti che potevano sapere qualcosa e che hanno parlato?

«Ci sono state delle voci, purtroppo, legate alla sua morte. Ma non abbiamo mai avuto conferme ufficiali, né tanto meno prove».

Di padre Paolo conosciamo il suo grande amore per la Siria e per il suo popolo. Quali parole ne descrivono al meglio la missione in Siria?

«Innanzitutto il suo grande amore per Dio che ha voluto dimostrare e mettere in pratica cercando di unire e non di dividere, in un luogo dove le divisioni sono accentuate. Un uomo innamorato di Dio, del dialogo e della giustizia, impegnato a costruire ponti tra diverse culture, fedi e tradizioni. Nel suo monastero di Mar Musa pregavano insieme musulmani, cattolici e ortodossi.

Quel monastero di Mar Musa, da lui fondato, rappresenta la voce di padre Paolo che continua a lanciare messaggi di pace e di dialogo…

«Padre Paolo aveva previsto tutto e purtroppo non è stato ascoltato. Se all’inizio organismi internazionali, come l’Onu e i caschi blu, fossero intervenuti con i cordoni umanitari per impedire delle carneficine, avrebbero evitato la fuga di milioni di persone. Questo monastero è anche il ricordo di un tempo passato nel quale c’era ancora tanta speranza, oggi ridotta al lumicino. Ma continuiamo a sperare perché è ciò che chiede mio fratello».

Ricordare oggi padre Paolo può servire anche a ricordare la tragedia siriana che ogni giorno che passa cade sempre più nell’oblio?

«Significa ricordare il dramma del popolo siriano che soffriva da decenni un regime dittatoriale. Ho avuto la fortuna di visitare la Siria tanti anni fa ed è un Paese bellissimo, un’opera d’arte, una cultura meravigliosa. Oggi purtroppo è andato tutto distrutto. La Siria è un Paese martoriato».

C’è un messaggio tra quelli a cuore a padre Paolo che oggi merita di essere rilanciato?

«Mio fratello era per la pace, ma non a tutti i costi. Intendo dire che se in dei momenti ci fossero state delle situazioni che richiedevano un intervento bisognava intervenire. Da profondo credente, estimatore del Papa, cercava la pace ma anche la salvezza di un popolo».

Dopo il rapimento lei ha dedicato un rap a suo fratello…

«Si intitola “Abuna Paolo”, così lo chiamavano in Siria. Nei miei concerti lo canto ed è sempre un’emozione. Nel finale della mia canzone scrivo queste parole: ‘l’importante è che tu abbia regalato un senso alla tua vita’. Ecco mio fratello fino all’ultimo ha regalato un senso alla sua vita. Il suo è un richiamo a vivere fino in fondo”».

Una volta lei mi disse “Mio fratello è vivo e continuerò a pensarlo finché non vedrò la sua salma, o non ascolterò le parole di qualcuno di cui mi fido ciecamente”…

«Ne sono ancora convinto. Se mio fratello fosse vivo sarebbe un miracolo, ma proprio perché in Siria la situazione è del tutto nebulosa spero che, nella fuga verso l’Iraq, i combattenti dell’Isis se lo siano portato dietro. Ciò che sogno è che qualche leader dello Stato Islamico tenga in ostaggio mio fratello e lo usi come lasciapassare finale per salvarsi la vita. Questa è la mia speranza e forse l’unico appiglio che ho».

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