Definisci bullo. Persona arrogante, molesta, prepotente, prevaricatrice (verbalmente o fisicamente) preferibilmente nei confronti di chi appare diverso, più debole, incapace di difendersi.
Anche se da circa un mese i nostri ragazzi sono tornati sui banchi, l’aula e i bulli a cui ci riferiamo questa volta non riguardano la scuola, ma quanto accaduto a New York durante i lavori dell’80sima Assemblea generale dell’ONU. È oramai evidente che esiste un “bullismo di Stato” e che se c’è chi ha il coraggio di indignarsi e ribellarsi ai prepotenti, c’è anche una larga fetta di popolazione, non possiamo nascondercelo, pericolosamente sedotta, per non dire ammaliata, dall’idea dell’uomo (o della donna) forte al comando. I bulli sono entrati nell’aula del Palazzo di vetro, democraticamente eletti, trasformando la sede-simbolo del più autorevole organismo internazionale, nato per mantenere la pace nel mondo, in un pulpito da cui propagare il loro odio e la loro visione farneticante del mondo. Prima è stata la volta del presidente Trump che in un discorso di 55 minuti (da regolamento ne avrebbe avuto a disposizione 15, e già questo è un segno di bullismo) ha parlato dell’inutilità dell’ONU, dell’emergenza climatica come una bufala, dell’invasione dell’Europa da parte dei migranti (sono in realtà il 6,4 % della popolazione complessiva del nostro continente), del tentativo di introdurre la sharia a Londra (sic!) e – faccia tosta infinita – del suo successo nel porre fine a innumerevoli conflitti nel mondo. E se l’è pure presa, Trump, parlando di “sabotaggio” contro la sua persona, perché una scala mobile all’ingresso e il suo gobbo digitale non funzionavano perfettamente. Non sarà – per restare nelle sue stesse convinzioni – che quel Dio che gli ha deviato la pallottola (sperando che poi magari si convertisse) ora abbia provato a fermarlo in modo più soft?
Ma bullo e ancor più bullo, due giorni dopo, nella stessa aula è stato il presidente israeliano Netanyahu. Anche lui ha parlato per più del doppio del tempo che gli sarebbe stato consentito, in un discorso durissimo in cui – da un negazionismo all’altro – ha affermato che a Gaza non vi sarebbero né fame né violenze sui civili, ha respinto l’accusa di genocidio, dichiarando di dover “terminare il lavoro iniziato” e ha minacciato possibili nefaste conseguenze per i governi che hanno riconosciuto lo Stato di Palestina o ancora caldeggiano la soluzione dei due Stati.
L’Assemblea questa volta però non è rimasta inerte ad ascoltare. Oltre cento rappresentanti di una cinquantina di delegazioni nazionali hanno abbandonato l’aula in segno di dissenso e di protesta. Non solo esponenti del mondo arabo, ma anche diversi diplomatici europei tra cui gli spagnoli, i norvegesi e gli irlandesi e molti paesi africani, asiatici e dell’America latina. A restare, in un’aula semideserta, a fianco naturalmente di Stati Uniti, Russia e Corea del Nord, i rappresentanti di alcuni governi che, pur considerando la reazione israeliana contro il terrorismo di Hamas “eccessiva” e dichiarandosi favorevoli all’introduzione di sanzioni contro il governo di Netanyahu, evidentemente non se la sentono di rompere apertamente con Israele per ragioni di opportunismo economico e politico. Tra questi anche l’Italia, la cui posizione espressa dalla premier Meloni nel suo discorso all’assemblea mercoledì, dunque dopo Trump e prima di Netanyahu, è parsa un po’ troppo ammiccante ai bulli e inopportunamente incorniciata tra due citazioni “francescane”.
Perché se è vero, come ha ricordato Giorgia, che Francesco è “il più italiano dei santi”, ancor più vero è che egli è “il più santo degli italiani” e che la santità chiede a volte scelte ben diverse da quelle dell’italianità.
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