È difficile pensare ad un uomo e ad uno scrittore più lontano dal sentire del mondo ecclesiale come Vitaliano Trevisan. Però, ad un anno dalla scomparsa di quello che probabilmente è stato il più importante scrittore italiano della sua generazione, è lecito domandarsi se la sua opera può dire qualcosa ai credenti, compreso il suo libro postumo “Black tulips”, lettura scomoda da recensire sulle pagine di un settimanale come La Voce dei Berici.
Trevisan era un frequentatore di prostitute nigeriane e dall’amicizia con una di queste, Ade, nasce l’idea di avviare un commercio di ricambi d’auto dall’Africa all’Italia. Così Trevisan parte per la Nigeria dove trova Ade, nel frattempo rimpatriata, e il cugino di lei. L’autore non ha taccuino e nemmeno macchina fotografica. Si affida alla memoria, tattile, visiva e olfattiva. I suoi sono ricordi in bianco e nero fatti salvi alcuni colori cangianti. Non si tratta, quindi, di un diario di viaggio, ma di un recupero attraverso la memoria di immagini, scene, sensazioni, impressioni, ricordi che rimbalzano nel tempo e nei luoghi, tra Vicenza e Lagos. Forse il libro, consegnato all’editore pochi mesi prima che Trevisan morisse, andrebbe letto a distanza di tempo, lontano dalla tragica fine dello scrittore. Ma nemmeno così, probabilmente, la lettura di “Black tulips” risulterebbe meno struggente o meno pervasa da un senso di finitudine che la morte del suo autore ha solo reso più esplicita. Per Vitaliano Trevisan, si legge in una delle numerose note al testo di “Black tulips” che l’autore era solito inserire, “scrivere, per quanto atto privo di speranza, o forse proprio per questo, significa aver fede”. Aver fede che una storia (la propria, in questo caso) venga letta e, semplicemente, ascoltata. E qui troviamo la risposta alla domanda da cui siamo partiti: Vitaliano Trevisan ha molto da dire o meglio, da raccontare anche ai credenti perché nei suoi scritti presenta un tessuto narrativo umano senza il quale il Vangelo non troverebbe materiale per diventare vita. La lettura dell’opera di Trevisan, esigente ma non inaccessibile, è quindi da incoraggiare perché contiene un pezzetto di ciascuno di noi, volenti o nolenti parte di questa umanità sbandata e impresentabile che cerca ascolto, accoglienza, cura, pace.