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Home Interviste

Il Vescovo Giuliano: «Impariamo a perdere tempo con i giovani»

22 Febbraio 2023
in Interviste, In primo piano
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Il Vescovo Giuliano: «Impariamo a perdere tempo con i giovani»

Due giorni con più di cento adolescenti della diocesi sui passi di San Giovanni Bosco e alla scoperta della realtà del Sermig e del suo Arsenale della pace. È l’esperienza proposta lo scorso fine settimana dalla pastorale giovanile e che ha condiviso anche il vescovo Giuliano. Al ritorno lo abbiamo sentito per una riflessione su fede e adolescenti e sulle sfide che, al riguardo, investono anche la Chiesa vicentina. 

Vescovo Giuliano, il rapporto tra adolescenti e fede non è mai stato facile. Lei come lo vede oggi?

«Come una nuova possibilità per la chiesa di farsi vicino agli adolescenti. La stagione dell’adolescenza è fatta di vitalità, scompostezze, domande, esperienze, eccessi e ricerca. Questo sembra mettere in difficoltà noi adulti, ma i ragazzi ci chiedono di svolgere il nostro ruolo di persone mature che possono costituire un punto di riferimento. Se troviamo il coraggio di stare a fianco dei nostri adolescenti possiamo ritrovare quel gusto relazionale che spingeva Gesù ad incontrare tutti specialmente coloro che la società lasciava ai margini».

Cosa può fare la Chiesa per superare le difficoltà di “attrattiva” rispetto agli adolescenti?

«La Chiesa deve semplicemente essere se stessa, così come l’ha voluta e continua a volerla il Signore. Un popolo di uomini e donne amati da Dio e salvati dai mali che li affliggono per testimoniare la gioia del Vangelo. Quando la fede è testimoniata con uno stile di vita evangelico anche gli adolescenti sono attratti. È l’atteggiamento di fondo che va coltivato: l’ascolto della condizione degli adolescenti, del loro disagio maturato in un tempo di pandemia. Quando degli adolescenti compiono atti gravi come ci poniamo? Forse si tratta di una richiesta di attenzione. Siamo in grado di ascoltare e interpretare quanto portano nel cuore?»

La pandemia ha colpito i ragazzi in modo pesante, anche con riferimento all’esperienza di fede. L’impressione è che bisogna ricostruire delle relazioni che però non possono essere uguali a prima. Quali sono le attenzioni da avere per un rapporto sincero, maturo, generativo con gli adolescenti? 

«Come dicevo il primo atteggiamento è quello dell’ascolto delle loro inquietudini. Il secondo è la pazienza di stare loro accanto senza previamente giudicare. Il terzo è la capacità di camminare insieme senza venir meno al nostro essere adulti. Il quarto è rispondere alle loro provocazioni conoscendo il loro linguaggio e i loro strumenti di comunicazione per aiutarli a comprendere il valore delle relazioni umane. Il quinto è offrire loro uno spazio nella comunità cristiana e civile nel quale possano incontrarsi, perdere tempo, esprimersi, interloquire con un educatore adulto quando hanno delle domande; una comunità che sia casa per loro anche nel mondo virtuale».

Le difficoltà di questi anni hanno reso ancora più evidente come il primo annuncio sia perlomeno più complicato di ieri. Come andrebbe ripensato?

«Offrendo agli adolescenti una possibilità di speranza nella vita, così come la offriva Gesù ai suoi contemporanei. Interrogarli sulla loro capacità di amare autenticamente e di essere liberati da forme di schiavitù che creano dipendenze ed estraniazione dalla società e dal mondo. Annunciare che la vita è un dono straordinariamente bello che viene dall’Alto; un dono da accogliere nella libertà; un dono da trafficare per rendere il mondo un po’ più bello di come l’abbiamo trovato».

In questo cammino la figura dell’educatore, di chi accompagna questi ragazzi nella crescita e nella scoperta di fede è decisiva. Non è però un compito facile, anzi. Quali sono gli atteggiamenti che dovrebbero caratterizzare chi si prende cura dell’educazione alla fede di questi ragazzi?

«Gli educatori sono fondamentali nella vita ecclesiale e nella società. E ce ne sono molti. In primis i genitori e i nonni che sono gli educatori per eccellenza. Poi gli insegnanti che si prendono cura della formazione scolastica delle nuove generazioni. Gli animatori e i capi scout che si propongono con un metodo che investe tutta la persona. Insieme a loro ci sono i catechisti e gli stessi preti e diaconi. E poi ci sono educatori suscitati da un dono speciale dello Spirito Santo come San Giovanni Bosco che abbiamo incrociato in questi giorni a Torino o Ernesto Olivero che ha dato vita all’Arsenale della Pace». 

Lei il 4 marzo incontrerà gli educatori della Diocesi che, di fronte alle non poche difficoltà di questi tempi (pandemia compresa), hanno bisogno anche di essere incoraggiati. Cosa si sente di dire loro? 

«Che “perdere tempo” con i ragazzi e gli adolescenti è una grande opportunità. Perché la fede cresce condividendola, come ha più volte affermato San Giovanni Paolo II».

Anche a Vicenza si sono ripetuti episodi di babygang e di violenza. Come la comunità ecclesiale si sente interpellata di fronte a queste emergenze?

«Serve quello che ancora prima della pandemia ci indicava papa Francesco e cioè un impatto educativo globale. Questo patto educativo richiede energie orientate a un progetto in cui tutti sono coinvolti. Serve poi un investimento sulla ricerca di persone che si dedichino con grande generosità, avendo uno sguardo speciale nei confronti di chi in questo momento è abbandonato o come nel caso specifico di questi ragazzi, ha commesso cose assolutamente sbagliate, e capire come con loro affrontare questo disagio per farli crescere in prospettiva futura». 

Come è andata l’esperienza a Torino con più di 100 adolescenti? Cosa l’ha colpita di più dei ragazzi che ha incontrato?

«Il viaggio a Torino con gli adolescenti è stato molto utile per condividere un piccolo momento nel quale conoscere alcuni di loro, ascoltare le loro esigenze, cantare e pregare insieme, scoprire che ciascuno di noi può cambiare qualcosa in questo mondo. 

Al Sermig, domenica sera, abbiamo avuto modo di vivere un’attività molto coinvolgente: la cena dei popoli. Mi ha colpito come gli adolescenti si siano pienamente coinvolti nel percepire che le ricchezze e il cibo del mondo è nelle mani di pochi, indifferenti e lontani da coloro che muoiono di fame. Le nuove generazioni sono molto sensibili alle disuguaglianze. In questa esperienza hanno ricevuto una bella iniezione di vitalità, speranza e di positive relazioni».

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