Dai tempi dell’università a Verona, spesso vado a tagliarmi i capelli da barbieri come Mohamed o Suresh. Oltre ad avere una maestria tutta particolare con forbici e lamette, è una piccola immersione nella vita di questi fratelli che vengono da paesi lontani, come il Marocco o lo Sri Lanka, la vecchia Ceylon. «Ancora tre ore», sospira Mohamed guardando l’orologio. Subito non afferro, poi capisco: mancano tre ore al tramonto del sole e dunque al termine del digiuno diurno imposto dal Ramadan in corso. Mohamed scherza con il ragazzo di bottega, un giovane marocchino intento a spazzare il pavimento: «E tu, non mi pare che osservi bene il ramadan!».
«Inshallah», risponde l’altro, un poco imbarazzato, per trarsi d’impaccio. Anche nell’islam evidentemente la religione è causa di qualche conflitto intergenerazionale. Sorrido divertito, e mentre prego che Mohamed non abbia un calo glicemico mentre mi taglia i capelli, non posso fare a meno di pensare a quanto i miei timidi impegni quaresimali sbiadiscano davanti al rigore di tanti fratelli e sorelle musulmani. E a chi obietta “sì, ma tanto mangiano di notte”, vorrei dire di provare loro a stare senza cibo e bevanda dall’alba al tramonto continuando a lavorare normalmente.
Nelle scorse settimane è finito nella solita bufera mediatica il dirigente scolastico di Pioltello in provincia di Milano che, avendo oltre metà degli alunni musulmani, con il consiglio d’istituto ha deciso – come gli permettono del resto le norme sull’autonomia scolastica – di tenere la scuola chiusa il 10 aprile, ultimo giorno del Ramadan. La questione, nata per ragioni didattiche e d’inclusività, si è fatto, manco a dirlo, tutta politica con la solita levata di scudi (crociati) a difesa della nostra cultura, delle nostre tradizioni e della nostra identità.
Davanti a tali rivendicazioni, vi confesso che il mio disagio è grande. Se da un lato il calendario scolastico resta giustamente modellato in Italia per motivi culturali sulle feste cristiane, non posso non chiedermi dove sia oggi la cristianità che tali giorni di vacanza dovrebbero permettere di esprimere con maggiore facilità. Prendiamo ad esempio il Venerdì Santo. Gli alunni delle scuole di ogni ordine e grado restano a casa. Per digiunare, praticare l’astinenza, partecipare alle celebrazioni della Chiesa, vivere in raccoglimento l’amorevole ricordo della morte del Signore? Sì, certo. Non dico di tornare agli anni ’50 quando anche i treni si fermavano per un minuto alle 15 del Venerdì Santo. Ma dobbiamo riconoscere che oggi a commemorare la morte sulla croce del Signore Gesù è una piccola minoranza di persone.
Per i più le vacanze della Settimana Santa sono una bella occasione per una gita primaverile, un weekend lungo di spritz e movida, un torneo di pallavolo. Non bastando le domeniche, da anni ormai le società sportive hanno trasformato il Triduo Santo in un meraviglioso torneo intensivo che vede coinvolte soprattutto le ragazze under 16 in tutte le province italiane. E che dire di Vicenza, dove a “Santa Corona” sabato santo si distribuivano coniglietti di cioccolato? Se questa è la Settimana Santa della “nostra millenaria civiltà cristiana” (per citare l’irrinunciabile preghiera dell’Alpino), siamo sicuri che sia dal Ramadan che dobbiamo difendere il calendario scolastico o non piuttosto dal vuoto pneumatico che oramai ci contraddistingue? Forse meglio sarebbe se tutti andassero a scuola il Venerdì Santo. Ma poi capita che una ragazza inaspettatamente ti interpelli: «Mi hanno tolto un dente e mi hanno raccomandato di mangiare solo gelato. Avevo fatto il proposito per la Quaresima di non mangiare dolci, come posso fare?». Davanti a cuori così, c’è ancora speranza. E per la cronaca, Mohamed, nel salutarmi, mi ha augurato buona Pasqua.
Alessio Graziani