Vicentino, 83 anni il 28 agosto, una vita dedicata alle periferie del mondo, ai migranti e allo studio del Concilio Vaticano II. È questo, in estrema sintesi, l’identikit di mons. Agostino Marchetto, che il prossimo 30 settembre verrà creato cardinale da Papa Francesco. Lo abbiamo raggiunto a poche ore dall’annuncio della nomina, avvenuta domenica 9 luglio al termine dell’Angelus del Papa.
Eccellenza, che cosa ha provato all’annuncio della sua nomina a cardinale?
«L’annuncio mi è stato dato da due collaboratrici, ora in pensione, della Casa Internazionale del Clero Paolo VI, in Roma, dove sono ospite dal 1994. Avevano ascoltato il Santo Padre alla Televisione, per l’Angelus. Non ci ho creduto subito, devo dire, ma poco dopo mi sono giunte voci autorevoli. Al dire il vero sono rimasto molto sorpreso. Al tempo stesso non ho pensato alla mia persona ma agli incarichi ecclesiali e al come li ho pastoralmente realizzati in tanti Paesi difficili del mondo. Questa è la pista – credo – di interpretazione della decisione pontificia. Ci sono stati poi i dieci anni, molto difficili, anche all’interno della Chiesa, come Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, e il mio lavoro per la storia, l’ermeneutica e la ricezione del Vaticano II, apprezzato dal Santo Padre, ma poco accolto».
Qual è il volto del collegio cardinalizio dopo dieci anni di pontificato di Francesco?
«Dopo dieci anni di pontificato “francescano” il volto del collegio cardinalizio è abbastanza simile a quello del Santo Padre. Intendo dire che alcune sue grandi visioni ecclesiali vi sono riflesse in linea di principio, almeno al sembrare, con la universalità sottolineata, la presenza “periferica”, la visione dei “territori missionari”, dei Paesi poveri, delle varie culture, ecc. Si vedrà comunque a suo tempo se l’interpretazione è corretta o risulterà superficiale».
Sia in tema di migranti che di storia della Chiesa, le Sue analisi hanno sempre cercato di smarcarsi da letture che potremmo definire oggi populiste. Tali analisi devono aver infastidito più di qualcuno, anche in determinati ambienti ecclesiali. Trova che questo renda oggi più significativa la sua nomina a Cardinale di Santa Romana Chiesa?
«Occupandomi con passione per molti anni di difesa dei migranti e, come studioso, della ricerca di una corretta ermeneutica del Concilio Vaticano II, credo di aver sempre ricercato e sostenuto posizioni che potessero dare conto della complessità dei fenomeni e dei fatti, smarcandomi – è vero – da letture che definirei più che altro “ideologiche”, il che il Santo Padre ha pubblicamente più volte riconosciuto. Tali posizioni hanno evidentemente disturbato chi preferiva polarizzare l’opinione pubblica ed ecclesiale su posizioni estreme e non sempre sono state guardate con simpatia neppure in certi ambienti ecclesiali e soprattutto curiali. Questo rende oggi ancor più significativa – hai detto bene, con verità e rispetto – la mia nomina a Cardinale di Santa Romana Chiesa».
Nel suo ricco curriculum di studioso e diplomatico c’è un’esperienza che oggi forse pochi ricordano, ma che l’ha fatta entrare nel cuore di tante persone: quella della malattia oncologica sopraggiunta durante il suo periodo in Bielorussia e raccontata nel libro “Nel tunnel della speranza”. Come la cambiò quell’esperienza? Quale messaggio oggi vorrebbe rivolgere e chi sta affrontando la stessa prova?
«Ed eccoci al “Tunnel della speranza”, al continente della malattia che mi si parò dinnanzi in Belarus’, anzi che mi inglobò nelle sue viscere, in territorio straniero e senza valido supporto. Finalmente, di ritorno a Vicenza, indicai al medico una pista che mi venne al tatto e fu trovata valida per scoprire un linfoma. Dovetti tornare in Italia. Vicenza mi accolse, il reparto ematologia mi curò bene e finalmente, allontanatesi le grinfie del linfoma, eccomi a riprendere servizio in Vaticano come Nunzio a disposizione. Dovevano controllare se ce la facevo a riprendere servizio. Il titolo del mio libretto dice bene l’esperienza: si trattò di un tunnel, buio, ma della speranza, perché balenava al suo fine la luce. Sembrava poterci riuscire a uscirne. Grande esperienza fu il dolore e la carità dei miei parenti, di medici ed infermieri, del mio prossimo. Speranza dunque; il messaggio è di speranza, e ciò del resto vale anche per la nostra situazione nel mondo di oggi e nella stessa Chiesa santa di Dio e peccatrice nei suoi membri non all’altezza del loro battesimo o della propria dignità umana e cristiana. Non lasciamoci rubare la speranza!»
Con lei i cardinali vicentini tornano ad essere tre (dopo la scomparsa lo scorso anno di un altro Agostino berico, il cardinale Cacciavillan). Pensando a Vicenza e ai suoi preti, mi dica tre aggettivi che le vengono in mente.
«Generosi, fedeli, e… critici!».
Auguri Eminenza!
Alessio Graziani