35 minuti in dialogo con il Pastore
L’intervista che pubblichiamo è una parte di una chiacchierata di più di mezz’ora che l’attuale vicario generale della Diocesi di Treviso e nuovo Vescovo di Vicenza ha rilasciato in esclusiva alla nostra testata e ai media diocesani. In 35 minuti don Giuliano si racconta e fa intuire la sua idea di Chiesa, le sue priorità e lo stile che oggi dovrebbe caratterizzare la presenza dei credenti nella chiesa e nel mondo. Mezz’ora a trecentosessanta gradi dunque, che ci permettono di cominciare a conoscere da vicino il nuovo Pastore. A partire dal corrente sabato si può vedere l’intervista integrale sui social del giornale (sito e Facebook) e della Diocesi. Radio Oreb la metterà in onda venerdì alle 10, alle 19, alle 22 e sabato alle 10. Telechiara Sabato 8 ottobre alle 16 (subito dopo la recita del santo rosario) e Tva Domenica 9 ottobre alle 9.55 (subito dopo la messa da Monte Berico).
Il nuovo vescovo di Vicenza, don Giuliano Brugnotto, 58 anni, ci accoglie con cordialità nel suo Ufficio di Vicario generale della diocesi trevigiana per la sua prima intervista ai media diocesani. Non vuole essere chiamato eccellenza. «È un termine desueto – dice – don Giuliano, o vescovo Giuliano vanno benissimo».
Vescovo Giuliano, innanzitutto, come sta?
«Dopo un po’ di travaglio per giungere alla decisione, diciamo che c’è una buona serenità»
Lei ha una forte passione per le missioni e invece, oggi, si ritrova vescovo della diocesi di Vicenza. Cos’ha pensato di fronte a tale sconvolgimento?
«In questi ultimi anni le sorprese sono state per me più di una. Innanzitutto quando mi è stato chiesto di fare il rettore del seminario di Treviso, servizio che non avrei mai pensato di dover prendere. Dopo tre anni il nuovo Vescovo mi ha chiesto un nuovo incarico come vicario generale, altrettanto sorprendente. Per obbedienza ho accolto l’ulteriore passo e così è adesso».
A Treviso è riuscito in qualche modo ad esprimere la sua passione per le missioni?
«Questa passione risale ai tempi della mia ordinazione. Allora chiesi che non ci fossero regali particolari se non una raccolta di offerte per una missione in Burundi dove suor Maria Vittoria Cenedese della mia parrocchia di origine (Mignagola) lavorava da molti anni. Poi quando sono stato a Roma, con studenti di varie nazioni ho conosciuto nuove realtà ecclesiali e nuove culture. Successivamente, diventato educatore, ho vissuto con entusiasmo l’accompagnamento di una classe a Manaus in Amazzonia e poi in altre missioni. Anche nella facoltà di diritto canonico a Venezia la presenza di molti sacerdoti stranieri mi ha permesso di entrare in un contesto culturale e pastorale differente e capire il loro punto di vista. Questo mi ha aperto gli orizzonti e costretto a essere più elastico mentalmente. La missione è una dimensione che è entrata sempre di più nella mia vita e che spero di poter continuare a coltivare a Vicenza. Siamo in un tempo in cui per missione non si intende più solo “le terre di missione”, ma è una dimensione che ci costituisce qui, nel nostro vivere quotidiano».
Nel suo saluto alla diocesi di Vicenza ha usato l’espressione “prendere il largo”. Cosa vuol dire per lei Vescovo sentire questo invito?
«Significa lasciare da parte progetti e programmi che si avevano in mente per essere disponibili per le chiamate del Signore che si manifestano nella storia, e che non sono cose astratte o mistiche. Dentro alla storia degli uomini il Signore chiama a lasciare e ad aprire gli orizzonti verso mete che spesso non sono previste.
La Chiesa è chiamata in questo tempo e in questo contesto europeo a guardare ben più in là. Facendo tesoro delle tradizioni e del cammino storico che abbiamo alle spalle, credo, infatti, che ci sia molto di positivo che ci sta attendendo e che dobbiamo capire insieme. Prendere il largo vuol dire un po’ rischiare, fidandosi: la Chiesa non è in mano nostra, ma di Qualcun altro e quindi possiamo ben sperare».
“Prendere il largo tenendo fisso lo sguardo su Gesù”, è un’altra espressione che ha usato. La sfida è trasmettere l’attualità di questo messaggio alle donne e agli uomini di oggi. Quali strade pensa sia utile percorrere per raggiungere questo fine?
«Ho utilizzato un’espressione della Lettera agli Ebrei che mi è cara. Penso sia davvero la grande sfida del credente oggi in un contesto non più segnato dal cristianesimo. C’è un modo di rispondere alla chiamata del Signore che chiede una forte adesione alle vicende della storia e una relazione personale con lui dentro l’esperienza della Chiesa, profondamente alimentata da quei sentimenti di grande gioia di cui papa Francesco ci ha parlato nella Evangelii Gaudium. Le tre traiettorie date da Evangelii Gaudium, Laudato Si’ e Fratelli Tutti sono le prospettive sulle quali camminare. Il cristiano non guarda al piccolo momento, ma è uno che ha lo sguardo sul mondo, sguardo che impara attraverso gli occhi di Gesù, che poi è lo sguardo dei piccoli. Anche il grande documento sull’Amazzonia è molto interessante perché ci invita a guardare alla Chiesa dal punto di vista di quelle popolazioni».
Siamo in un momento molto complesso, difficile e sofferto. Lei ha usato due termini che ci indicano come stare dentro a questa situazione: compassione e solidarietà. Secondo lei viviamo un tempo dove le due dimensioni scarseggiano?
«Credo che nel nostro contesto sia presente molta solidarietà. Però respiriamo una cultura segnata da un forte individualismo e forse, come ricorda papa Francesco, diventiamo, a causa del nostro benessere, insensibili rispetto a quel povero che è fuori casa, che bussa alla nostra porta e che ci viene incontro in molteplici forme: dall’immigrato alla persona con disabilità, dall’anziano all’ammalato, ai carcerati. Questo ci prospetta un bell’impegno: i discepoli del Signore debbono porre dei segni che attestino che la compassione e la solidarietà sono il cuore della vita ecclesiale, altrimenti rischiamo di fare un annuncio molto astratto».
Le giovani generazioni sono una delle grandi questioni che interpella la nostra Chiesa. Come vede il rapporto della Chiesa con le giovani generazioni?
«È fondamentale che la Chiesa ritrovi il volto della giovinezza e questo interroga la questione demografica. La Chiesa deve mettersi in ascolto delle nuove generazioni che stanno crescendo in un contesto completamente diverso da quello in cui è cresciuta la maggior parte degli adulti. Si trovano a confrontarsi con strumenti che spesso noi non conosciamo, con un contesto sociale molto più difficile per loro, rispetto ai tempi in cui si poteva tranquillamente girare in bicicletta per i paesi. Nella misura in cui ci mettiamo in atteggiamento di ascolto delle loro urgenze, necessità e istanze vedo che ci sono tante possibilità. Non mancano giovani generosi e desiderosi, per esempio, di partire per una esperienza in terra di missione o giovani che ricercano strade nuove, come la “economy of Francesco”, dove ci possa essere un’economia alternativa a quella a cui assistiamo e che è causa di profonde diseguaglianze. Da questo punto di vista c’è davvero tanta bella strada da fare insieme».