È la famiglia, ampia, a maglie fitte che fino ad ora ha salvato il nostro Paese dall’estinzione, ma, per contro, è quella che ci porterà all’estinzione. Esageriamo, certo (neanche tanto), però semplificando è questo uno dei concetti principali emersi dal convegno “Natalità e denatalità. Una sfida globale” organizzato dall’Istituto socio culturale “Rezzara” di Vicenza al Centro Onisto lo scorso fine settimana. La situazione della natalità in Italia è preoccupante, grave, «drammatica» dice Davide Girardi dell’Istituto universitario Salesiano di Venezia, tra i relatori. La questione è culturale.
«Gli italiani che fanno figli hanno una struttura famigliare alle spalle che li sostiene –s piega Francesca Luppi, docente di Demografia nella facoltà di economia dell’Università Cattolica di Milano, già consigliera del Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio -, un’organizzazione familiare che cura, che interviene dove il welfare e la politica non arrivano. Una maglia a tanti nodi che salva. In caso contrario si posticipa o si rinuncia. Per invertire la tendenza è necessario superare questo “sistema familistico” verso un sistema più centrato sulla persona, in cui lo Stato – come ad esempio accade nei Paesi del Nord Europa – si prende cura del singolo cittadino permettendo, soprattutto alle donne, di continuare a lavorare».
L’Italia ha il fertility gap tra i più alti d’Europa. C’è un importante divario tra i figli che le donne desiderano e quelli che poi in realtà mettono al mondo. «Un gruppo di ragazze europee dai 20 ai 24 anni ha risposto che “da grande” vorrebbe più di due figli, in realtà poi la media europea è di 1,5» sottolinea Luppi.
In Italia la media è ancora più bassa: 1,24 figli per coppia. Un bimbo e un braccio. Nel 1960 il nostro Paese era il più fecondo d’Europa. Dagli anni ’80 la media ha cominciato a scendere. «La bassa fecondità degli ultimi decenni ha provocato un importante squilibrio generazionale – continua Luppi -. Meno bambini significa anche meno donne che potranno procreare. In Europa le donne tra i 15 e i 49 anni si sono ridotte di un milione rispetto al 2008».
L’Italia non è un Paese per signore: «Una donna su due non lavora – continua la demografa -. Quando nasce il secondo figlio, esce dal mondo del lavoro. Fare figli in Italia è uno svantaggio economico e competitivo. Perché una donna deve rinunciare a lavorare per la maternità? È un problema culturale. Ci sono pochi posti negli asili nido, che sono carissimi. Se non ci sono i nonni o non si ha la fortuna di potersi permettere una tata, chi sta a casa? La mamma, che oggi ha 5 mesi di maternità obbligatoria retribuita all’80%. Il padre ha diritto a 10 giorni. È un’investitura istituzionale. Ma perché lei? Nei Paesi del Nord europa padre e madre hanno lo stesso congedo che possono dividersi. In Francia la nascita di un figlio è un valore collettivo, non un costo individuale» continua l’esperta. Contemporaneamente è necessario lavorare sull’importanza della fiducia nel prossimo, sull’importanza di lasciare andare i propri figli, di “affidarli” a nonne, educatrici e baby sitter fin da piccoli.
Il calo delle nascite tra il 2008 e il 2021 in Italia è dovuto per due terzi alla riduzione del contingente delle donne in età fertile (circa 120mila in meno), per un terzo al calo della fecondità. L’Istat stima che fra le nate nei primi anni ’80, 1 su 4 non avrà figli nella vita. A metà degli anni ’50 era 1 su 10. Sempre l’Istat sostiene che per contenere gli squilibri demografici abbiamo bisogno di far tornare le nascite a 500mila entro 10 anni (con una media di 1,5 figli per coppia che dovrà salire a 1,8 entro il 2050). L’anno scorso le nascite in Italia sono state poco meno di 400mila, solo 10 anni prima erano 534.186.
«In Veneto il tasso di fecondità è molto al di sotto del livello di stabilità – dice il professor Davide Girardi -. In nessun comune veneto il numero degli under 15 supera quelli degli over 65. L’età media è di 42 anni circa». «Si posticipa di più il momento del primo figlio per varie ragioni – spiega ancora Francesca Luppi -: ci sono l’università, il lavoro, la casa. Ed è aumentata l’incertezza. I ragazzi guardano avanti e non sorridono, non c’è fiducia. Si chiedono: “Se i nostri figli non potranno avere il nostro tenore di vita perché metterli al mondo?”. La politica deve fare qualcosa anche sulla percezione dell’incertezza».
L’Italia non è neanche un Paese per giovani e il loro mondo va analizzato bene. Non sono i bamboccioni stereotipati di cui si parla tanto, anzi, non hanno paura di fare fatica: «Dal 2011 al 2021 in Veneto è aumentata la quota di chi, con un titolo di studio medio alto, si è trasferito all’estero. In Italia è il sistema che non funziona» analizza Girardi. «Dobbiamo lavorare bene con i ragazzi tra i 14 e i 21 anni prendendo molto seriamente quello che ci dicono e chiedono». In generale l’Italia non valorizza il capitale umano. Il 20% dei giovani laureati non fa un lavoro da laureato. «Sono mammoni per necessità» chiude Girardi.
In tema di politiche per la famiglia qualche modello virtuoso arriva da Trento e Bolzano e da alcune zone dell’Emilia Romagna. «Dal basso qualcosa si sta muovendo, speriamo ci sia il tempo» sottolinea Luppi. A Vicenza il sindaco Giacomo Possamai è impegnato a ridurre le rette degli asili nido comunali.
«Oggi tutto è connesso, il problema è complesso e serve un approccio sistemico – commenta il vescovo di Vicenza Giuliano Brugnotto che venerdì scorso era tra il pubblico-. Le previsioni Istat presentano un calo evidente: se nel 2030 saremo 58 milioni, nel 2080 saremo 45,8 milioni, più di 10 milioni in meno».
Il Papa è stato chiaro a riguardo. «Serve un’alleanza uomo-donna che prenda in mano la regia dell’intera comunità – ha continuato il Vescovo -. Un’intesa uomo-donna sul senso della vita. È qualcosa che va oltre le pari opportunità. Aumenta la sessualità, ma diminuisce la procreazione, è un problema che va affrontato dal punto di vista culturale».
«Ci sono alcune azioni che uno Stato può mettere in campo per sostenere l’arrivo del primo figlio – conclude Luppi -; favorire l’acquisizione di autonomia dalla famiglia di origine; facilitare la transizione scuola-lavoro, valorizzare il capitale umano, sostenere il reddito e sostenere l’acquisto-affitto della prima casa. Per sostenere la scelta di andare oltre il primo figlio si può migliorare la conciliazione lavoro famiglia, sostenere l’occupazione delle madri e ridurre il gap salariale , incentivare la partecipazione dei padri alla cura e contenere il rischio di povertà che tende ad aumentare drammaticamente con la terza gravidanza».
Marta Randon