Quali sono i germogli di fede che permettono di guardare con speranza al futuro della Chiesa e del messaggio evangelico, per i fedeli del Vicariato di Schio e Arsiero? Se lo sono chiesti in circa 200, riuniti nella chiesa scledense di Santissima Trinità, l’ultimo sabato di febbraio. Diaconi e capi scout, membri dei consigli pastorali e animatori dell’AC, catechisti e – naturalmente – preti. Tutti hanno provato a dare risposte, scoprendo nel confronto l’uno con l’altro risorse e ricchezze inaspettate. Nella nuova tappa del cammino voluto dalla diocesi e dal vescovo Giuliano per discutere del futuro, ispirandosi idealmente al difficile cammino dei discepoli di Emmaus, come nel racconto biblico si è guardato a Gesù per trovare la speranza e la forza di “continuare il viaggio”. Pur nel segno del cambiamento: a partire dall’organizzazione delle unità pastorali.
Don Flavio Marchesini, protagonista del viaggio che sta toccando tutti i 14 vicariati della diocesi, ha esordito chiedendo ai presenti di «guardare la chiesa fra 10 anni. Cosa vedete? È una domanda impegnativa e potrei anticipare la risposta più facile: una montagna di problemi. Ma questo è anche quello che non vorremmo dirci in questi incontri. Guardiamo piuttosto al Signore, preghiamo perché come con i discepoli di Emmaus, Egli sia al nostro fianco. Dire “se ci togliete il prete la parrocchia muore” è sbagliato – ha sottolineato don Flavio -. Piuttosto ci si deve chiedere: “Se non c’è il prete, cosa facciamo per andare avanti?” Perché se noi lo vogliamo, non stiamo morendo, ma ci stiamo reinventando».
Con l’aiuto di 15 facilitatori, divisi in modo casuale in altrettanti gruppi i presenti hanno provato a dare delle risposte alla domanda iniziale. Cercando e raccogliendo, ognuno col suo contributo, dei “germogli” positivi per guardare alla chiesa vicentina fra un decennio. E fra i gruppi si è riscontrata tanta voglia e urgenza di fare, di cambiare, di lavorare in modo diverso.
«La chiesa molto spesso viene percepita dai giovani come distante – ha osservato nel suo gruppo una animatrice dei ragazzi di una parrocchia – eppure, la voglia di fare c’è ed è tanta. Io la vedo, fra i miei “animati”. Forse si tratta di intercettarla in modo diverso». Per una catechista, «questo cammino di cui parliamo dovrebbe partire dai più piccoli e arrivare ai genitori. Che possono e devono essere coinvolti: è un bene che oggi il catechismo coinvolga anche i grandi». Questo pensiero è risuonato spesso fra i partecipanti all’incontro. È la voglia di un coinvolgimento di tutte le età, partendo dai più piccoli, in modalità che esulino dalle tradizionali partecipazioni liturgiche che, dopo la pandemia, vedono meno presenze. «Per me andrebbe proprio abolita la parola “catechismo” – ha detto un altro animatore – si parli di andare a vivere un’esperienza assieme a dei compagni, e si coinvolgano sempre più anche gli adulti».
Un prete dell’altovicentino ha raccontato della difficile esperienza vissuta con la pandemia dalla sua comunità. Ma anche degli esiti, inattesi: «Dopo il Covid, alcune facce sono sparite. Ma allo stesso tempo alcuni si sono affacciati: delle famiglie, delle facce nuove». È forte, comunque, la preoccupazione per le guide attuali, per forza di cose sempre più in là con gli anni.
«Il nostro “don” è una linea che unisce tutte le generazioni. Ed ha costruito il gruppo dei ragazzi, dai più piccoli a quelli delle superiori. Temo il momento in cui la situazione dovesse cambiare», ha confidato una mamma della collina scledense. Altri presenti hanno raccontato le attività di volontariato che vengono vissute nel territorio e che danno piccole, ma allo stesso tempo enormi soddisfazioni. «Nel nostro gruppo Caritas tutti i volontari lavorano volentieri assieme, e bene. Non ci sono giovani per questioni di orario, l’attività è nel pomeriggio: ma vediamo che quando facciamo appello ai ragazzi scout o di una parrocchia per delle attività specifiche, c’è grande entusiasmo e disponibilità nell’aiutarci. È un incentivo a continuare a impegnarci nei servizi che svolgiamo, compreso il più importante: il Centro di Ascolto, il momento più sentito e apprezzato della nostra attività».
Tutti insieme i presenti hanno provato quindi a definire un’immagine, un concetto che esprimesse i “germogli” usciti dalle conversazioni. E c’è chi ha visto nelle testimonianze di speranza «un fuoco ardente, senza paura e con desiderio di riscaldare, aiutati dalla Provvidenza», chi ha immaginato «un puzzle con tante sfaccettature diverse, un tassello per il contributo di ognuno, a costruire tutti insieme un significato più profondo». Anche se forse, l’immagine più appropriata torna ad Emmaus: quella del cammino. O meglio del “modo” in cui si cammina: «Avete presente quando si cammina in montagna, verso la cima o il rifugio? – ha commentato uno dei partecipanti – Si sale con fatica, ma nella condivisione. Ci si passa una borraccia d’acqua e si aspetta chi resta indietro, portando nello zaino qualcosa in più, cose che serviranno dopo.. È il modo in cui si fa questo viaggio quel qualcosa che può costruire la speranza».
Andrea Alba