Spettacoli

Antonio Albanese racconta il suo “Cento domeniche”. «Un omaggio alle vittime del crac delle banche popolari»

«Spero di rallegrare gli animi. Se tra il pubblico c’è qualche vittima spero di farla sentire meno sola. Di aiutarla a credere che in un modo o nell’altro questa cosa drammatica non succederà più». L’attore e regista Antonio Albanese sabato 25 novembre è a Vicenza a presentare il suo ultimo film “Cento domeniche” ispirato al fallimento delle banche venete. Due proiezioni gratuite (al Patronato Leone XIII e al Cinema Luxe Uci Palladio, posti esauriti) organizzate grazie alla sinergia tra la Vision Distribution, la Diocesi di Vicenza, “Noi che credevamo Associazione medio-piccoli risparmiatori” e l’“Associazione Nazionale Azionisti Banca Popolare di Vicenza”. Al termine della prima proiezione il regista ascolta e dialoga con il pubblico in sala. Modera il giornalista Gian Antonio Stella.

Albanese parla di cose che conosce bene. È figlio di operai e da operaio ha lavorato per quasi sette anni a Olginate, in provincia di Lecco, proprio a quel tornio che vediamo nel film. Dai 15 ai 22 anni. «Avevo voglia di “onorare i primi” quel mondo operaio che sostiene questo Paese – racconta raggiunto al telefono -. Volevo far sapere a tutti che esiste questa enorme ed infinita ingiustizia».

Il suo Antonio di “Cento Domeniche” è un uomo mite, innamorato del del suo lavoro, nonostante sia già in pensione. Si divide tra l’assistenza alla madre in piena demenza senile e le bocce nella squadra aziendale.

Antonio, lei come si sente ogni volta che arriva in un territorio che porta ancora le ferite?

«Senza dubbio è un effetto emotivo intenso. Per preparare il film ho avuto varie consulenze: da Vicenza, Schio, ma anche dalle Marche, dalla Toscana, dalla Puglia. Di volta in volta arrivo in luoghi dove intere comunità sono state colpite e tuttora risentono di quel dramma. La dedica finale del film è proprio alle vittime che non hanno avuto aiuti, che sono state dimenticate. Sarà quindi molto emozionante, sarà impetuoso».

Nello specifico come si è documentato rispetto al crac della Banca Popolare di Vicenza?

«Mi hanno aiutato ad avvicinarmi al dolore di centinaia di truffati una psicologa e un giornalista vicentini. Grazie a loro ho conosciuto storie, fatti, aneddoti. Ho letto molto. Non ho voluto incontrare le vittime perché non volevo farmi coinvolgere troppo. Diventava tutto più complicato e sarebbe stato controproducente per la realizzazione del film».

Piccoli risparmiatori disperati, famiglie distrutte, qualche suicidio, un’iniezione di male in un territorio di grandi lavoratori, di gente onesta. In questi anni non si è vista nessuna sommossa generale, arrabbiatura di massa, nessuna rivedicazione forte. Perché secondo lei?

«Per una questione di grande dignità dei vicentini che si sono presi delle colpe. Io nel film lo racconto. Bisognava leggere il contratto, ma chi li legge mai i contratti… Come sempre accade nelle comunità di grandi lavoratori la dignità, la vergogna hanno frenato la reazione. Non è solo una questione economica, è anche un’umiliazione che indebolisce ogni essere umano, che porta le vittime all’isolamento. È questo che volevo trattare. Per loro è stato un tradimento vero».

Per rendere il film credibile ha dovuto anche mettersi nei panni di chi ha contribuito al disastro, ai responsabili. Che cosa direbbe loro se se li trovasse davanti?

«Non sono un giustizialista, di queste cose non mi occupo. Ma prima di tutto direi loro di vergognarsi. Che si rendano conto che hanno procurato un danno enorme, incredibile. Le colpe sono evidenti. Non è una responsabilità del sistema banche che io difendo, ma di determinate persone che dovrebbero vergognarsi, isolarsi e annullarsi. Per quello che seguo le conseguenze della legge non mi sembrano esaltanti. Il mio è un film per esaltare questa ingiustizia ed immaginare che cose del genere non si ripetano mai più».

Il nostro vescovo Giuliano che sabato sarà alla proiezione al Cinema Patronato Leone XIII ha dichiarato: “Per chi crede, tra l’altro, anche le diverse espressioni culturali possono diventare luoghi di annuncio del Vangelo, oltre che di umana vicinanza”. È d’accordo?

«Sono assolutamente d’accordo. Ho girato il film a Lecco, dove il parroco è don Davide Milani, mio amico d’infanzia. Era il portavoce di Tettamanzi. Ha visto il film ed è rimasto colpito e affascinato dal suo messaggio in un certo senso evangelico. Ha riconosciuto l’umanità che ho cercato di rappresentare, rispettandola nel migliore dei modi».

Le “Cento domeniche” del titolo che cosa rappresentano?

«Rappresentano il tempo, circa due anni, che i nostri padri avevano per costruirsi la casa. Lo facevano durante le domeniche, durante la vacanze invernali ed estive, sfruttavano il tempo libero per farsi il loro cubo di cemento. Erano gli anni ’60-70, case semplici, umili e dignitose».

Marta Randon