«Mio padre Ferruccio una notte lo disse fuori dai denti. Mia mamma urlò. Francesco, l’ultimo nato, non aveva uno sviluppo come gli altri neonati. Consapevoli si guardarono negli occhi. Credevano che io, il fratello maggiore, fossi a letto. Era la fine del 1957, frequentavo la prima media. Arrivò lo scossone. La vita cambiò in un secondo. Mio fratello aveva pochi mesi». A maggio l’Anffas Vicenza, associazione che si occupa di bambini, ragazzi e adulti con disabilità intellettiva, compie 60 anni. Il presidente Vanni Poli, figlio del fondatore Ferruccio, ripercorre la storia raccontando l’esperienza, fortissima, vissuta dalla sua famiglia.
Per festeggiare l’anniversario sabato 20 aprile, dalle 9 alle 13, nella Sala Teatro del Centro “A. Onisto” a Vicenza si terrà il seminario “La persona con disabilità intellettiva è una di noi, una con noi o una tra noi?”.
Vanni Poli, quella rivelazione dei suoi genitori, una notte, convinti che lei, il figlio più grande, fosse a letto…
«Mio padre Ferruccio lo disse fuori dai denti. Mia mamma urlò. Francesco, l’ultimo nato, non aveva uno sviluppo come gli altri. Consapevoli si guardarono negli occhi.Era la fine del 1957. Io frequentavo la prima media. Arrivò lo scossone. La vita cambiò in un secondo. Mio fratello aveva pochi mesi».
Se Francesco non fosse nato, oggi l’Anffas Vicenza non compirebbe 60 anni.
«Mio padre che fondò l’associazione nel maggio 1964, prima di morire, a una settimana dai 95 anni, mi disse: “Per fortuna è nato Francesco, altrimenti non avrei potuto fare per gli altri tutto quello che ho fatto”».
Che cosa fece suo padre per Francesco?
«L’impossibile, come tutte le famiglie con un bambino con disabilità. Non guardava in faccia nessuno. Il primario di pediatria gli disse “la patologia è irreversibile, lo metta in una struttura e si dimentichi di quel figlio, ne ha altri tre”. Con sacrifici economici papà lo portò in un centro residenziale pediatrico a Genova legato all’ospedale Gaslini. Credo che in quegli anni fosse l’unico in Italia ad occuparsi di recupero e riabilitazione di piccoli con disabilità intellettiva. I suoi colleghi insegnanti lo aiutarono economicamente».
Dopo circa un anno però lo riportò a casa.
«Mamma e papà prendevano il treno il venerdì sera per arrivare a Genova il sabato mattina. Spesso andavo con loro. Una mattina stavano passeggiando attorno alla struttura e lo sentirono piangere. Un’operatrice gli urlò contro. In un attimo papà lo portò via. Francesco da quel giorno non ha mai più parlato. Trauma da distacco. Aveva 4 anni. Poi provarono con un centro in Germania, lo portarono perfino da Padre Pio in Puglia. Provarono di tutto e di più. Ma lo scoglio più grosso fu inserirlo a scuola»
Suo papà andò in giro per la provincia a cercare altre famiglie come la vostra.
«Prese la patente, comprò la macchina. Recuperò la lista delle famiglie con bambini con disabilità. In quegli anni avere un figlio così era considerata una punizione divina. Bambini e ragazzi venivano nascosti, non uscivano mai di casa. Suonò un campanello alla volta. Le famiglie gli sbattevano la porta in faccia, ma quando diceva che in macchina c’era Francesco l’atteggiamento cambiava. Una decina lo seguirono».
A maggio 1965 nacque ufficialmente Anffas Vicenza.
«Papà andò alla Croce Rossa di Vicenza, prese contatti con l’Anffas nazionale che era nata sei anni prima a Roma. Francesco aveva 7 anni. Il primo ottobre di quell’anno mio fratello e gli altri bambini furono presi per mano e accompagnati a scuola».
Ma non erano negli elenchi ufficiali.
«Non erano iscritti e il Provveditorato andò in tilt. Il Provveditore disse “questi bambini non sono adatti alla scuola”. Mio padre rispose: “Semmai è il contrario. È la scuola che deve adattarsi e accogliere questi bambini”. Vinse la battaglia, la classe partì».
L’obbligo scolastico però finiva a 10 anni.
«In quegli anni che cosa faceva un bimbo finita la scuola^? Imparava un lavoro. Mio padre girò nuovamente la provincia per trovare una struttura idonea per aprire un centro che insegnasse a questi ragazzini un mestiere. Passammo davanti all’attuale centro Anffas a Lisiera, di fronte alla chiesa. Era chiuso. Suonammo in canonica. Tramite il parroco parlammo con il vescovo Onisto che, attraverso una convenzione con la Provincia, ci diede la struttura. L’accordo dura ancora, l’abbiamo rinnovato due anni fa per altri 30 anni».
Il Centro di Lisiera com’era organizzato all’inizio?
«Il primo corso partì nel 1970. Furono i genitori e i nonni a rimboccarsi le maniche, mia mamma in particolare. Furono coinvolti artigiani, operai, persone in grado di seguire i ragazzi e insegnare loro un lavoro. Il primo fu un laboratorio di rilegatura di libri. Mio nonno, falegname, costruì un telaio in legno. I ragazzi rilegavano le gazzette ufficili per i comuni. Poi cominciarono ad assemblare penne, a fare lavori di pelletteria, ricamo. C’erano ragazzine molto capaci. Il numero dei partecipanti piano piano aumentò e i ragazzi crebbero: mio fratello oggi ha 66 anni. Io 11 più di lui».
Oggi quante persone seguite?
«Tra il centro di Lisiera e la comunità alloggio di viale Trieste di Vicenza seguiamo una cinquantina di famiglie. Erano di più ma, per fortuna, negli anni sono sorte molte altre associazioni».
Che ricordi ha di suo padre Ferruccio?
«Era in contatto con psicoterapeuti del Comune. Un giorno uno di loro gli disse: “Ma lei non può saperne di queste cose”. In quattro anni prese la seconda laurea in psicologia. Era uno tosto, duro, capacissimo. Io ero già presidente da un po’, ma mi controllava, mi seguiva. C’era sempre. Mi obbligò a fare il liceo scientifico, non voleva che insegnassi. Quando feci l’esame di maturità, proprio l’anno in cui nacque Anfass Vicenza, non temevo i professori, ma chi era dietro di me. Tante famiglie hanno collaborato, ma se non ci fosse stato papà…».
Dagli anni ’60 la società è molto cambiata nei confronti della disabilità. Che cosa manca?
«L’approccio alla disabilità è cambiato, ma non totalmente. Ci sono ancora le aule di sostegno. Capisco che servano luoghi adatti, ma non posso prendere il “pacco disabile” e portarlo di là perché dà fastidio. Non è facile, ma si deve trovare un modo. Gli insegnanti di sostegno sono pochi e cambiano troppo spesso. Il sistema scolastico zoppica. Le persone con disabilità che conoscevamo negli anni ’70 avevano deficit intellettivo, sindrome di Down, adesso c’è un deciso aumento di casi che rientrano nello spettro autistico con gravi problemi comportamentali. I dati Usa parlano di un caso su 49 nati. Si stanno rivolgendo a noi persone disperate perché alcuni di questi ragazzi diventano violenti e autolesionisti».
Come pensate di affrontare la situazione?
«Stiamo cercando i fondi per aprire un centro resideziale ad hoc per ragazzi che rientrano nello spettro, soprattutto perché a 16-17 anni il sistema sanitario li abbandona. C’è il vuoto. Siamo impegnati a costruire “progetti di vita” personalizzati in base a desideri e capacità. Stiamo formando personale Ulss. Non ci ferma nessuno».
Marta Randon