Il film ispirato al rapimento Celadon “800 giorni” è stato un piccolo “Oppenheimer” in provincia di Vicenza: ha fatto uscire la gente di casa per andare al cinema. A Breganze il film è stato proiettato al cinema “Verdi” (560 posti) per cinque serate da tutto esaurito. Ad Arzignano, paese dove Celadon è nato, il film è stato proiettato ininterrottamente per due settimane. Al Lux di Camisano, la scorsa settimana, i 374 posti a sedere erano tutti pieni, nonostante il tempo da lupi. «Chiaro che se usciamo dal Vicentino le cose cambiano – commenta il regista, Dennis Dellai -. Ma a Padova abbiamo avuto una proiezione infrasettimanale al Lux con un centinaio di persone».
Dellai, sicuramente di “800 giorni” si è parlato tanto anche sulla stampa nazionale. Voi di “Progetto cinema A/V” che avete realizzato il film siete conosciuti, per cui una risposta positiva al film c’era da aspettarsela. Ma è tuto qui o c’è di più?
«Credo che la storia sia determinante a trainare il film. Il nostro precedente lavoro, “Oscar”, era ambientato durante la Seconda guerra mondiale. Era una storia poco conosciuta e interessante, ma meno “trainante”. Quella di “800 giorni” è una storia recente, la gente che l’ha vissuta la ricorda bene, lo stesso Carlo Celadon ha 54 anni. Credo che prima venga l’interesse per la storia, per la cronaca, l’aspetto umano, il dramma, e poi quello per il film in quanto tale».
Che corde tocca, sul piano umano, “800 giorni”?
«Credo che il film abbia il merito di andare a ricordare un decennio drammatico per la storia della nostra provincia. È un modo per ricordarci che gli anni ’80 non sono stati solo discoteche, feste e coppe del mondo. I rapimenti di imprenditori erano frequenti, le Brigate rosse erano ancora attive e in Veneto imperversava la Mala del Brenta. È stato un decennio molto luccicante ma anche drammatico per quello che abbiamo vissuto a livello sociale. È importante risvegliare l’attenzione alla parte “nera” degli anni ’80. Quelli che escono dal cinema magari sono delusi perché il film non racconta la storia di Celadon, ma sono contenti per aver risvegliato la “memoria sopita” di quel periodo».
In effetti il film è solo “ispirato” alla vicenda di Celadon. Perché questa scelta?
«Quando ho deciso di raccontare la sua storia ho incontrato Carlo perché volevo coinvolgerlo nel progetto. Ma mi disse di no. Non voleva spettacolarizzare la sua storia e nemmeno coinvolgere la sua famiglia. Così abbiamo cambiato nomi, personaggi… il film è una storia di “fiction”, ma poggia su elementi reali: i covi in cui era nascosto, le pressioni psicologiche… il contesto è reale. D’altro canto, sarebbe stato complicato raccontare la sua storia, anche sul piano realizzativo. Se sposi la verità devi raccontarla tutta, devi fare un film-documento. La mia scelta è stata fare un film di fiction. Mi interessa di più toccare i sentimenti che fare una ricostruzione reale, raccontando però vicende realmente accadute».
Nel periodo del rapimento dove ti trovavi?
«A fine anni ’80 lavoravo in radio. Annunciavo le news, per cui la cronaca di quegli anni me al sono vissuta tutta. C’è però un altro evento significativo all’origine del film. Nel 1981, anno del rapimento Dozier, io ero militare alla base Nato di Verona. Dozier era il mio generale, venne rapito dalle Brigate rosse e tenuto prigioniero per 42 giorni. Quella storia mi ha segnato molto e inzialmente pensavo di farci un film. Ma era troppo complicato. Così ho accantonato l’idea. Poi un giorno, per caso, ho letto un articolo che parlava di Celadon ed è scattata la scintilla. È una storia nostra, del nostro territorio, parla del Vicentino, ha un valore universale ed è stato il rapimento più lungo della storia d’Italia: 831 giorni, è ancora un record».
Vi siete divertiti a far rivivere gli anni ’80?
«La parte creativa di un film è la più divertente. E tornare agli anni ’80 per chi li ha vissuti e per chi, come me, ha fatto radio, è stato bellissimo. Per una scena abbiamo ricostruito lo studio di un dj. Lo scenografo è stato bravissimo a recuperare giradischi e registratori d’epoca. Quando l’ho visto mi sono commosso».
Per parlare di “800 giorni” sei stato invitato in Rai il 7 novembre. Il film è stato proiettato in anteprima a Venezia, poi a Roma in una serata per addetti ai lavori al cinema “Adriano”. Niente male per un gruppo di appassionati…
«Nessuno di noi è un professionista del cinema, vero. Ci siamo fatti esperienza girando, siamo autodidatti. Il film, poi, è costato 50 mila euro. “Comandante”, con Favino, 14 milioni, e non è neanche stato uno dei film italiani più costosi. Siamo perfino stati contattati dal’Università di cinema della Florida per spiegare come si fa a girare un film a basso budget. Ma cerchiamo di essere onesti e di fare film onesti, che tocchino le corde del cuore».
E Celadon? È stato contento del film?
«Carlo era presente alla prima nel Vicentino, ad Arzignano. Eravamo preoccupati, perché l’attesa era tanta. Però è andata bene, è venuto tre volte a vederlo e la terza volta ha detto di aver colto sfumature che gli hanno fatto apprezzare ancora di più il lavoro. E che si è rivisto, in alcune scene. Una soddisfazione grandissima».
Andrea Frison