L’arte sta tutta nella manualità, nell’abilità di saper tirare la corda al punto giusto, per tenere la campana in equilibrio, all’ingiù, come un bicchiere sul tavolo, e poi di lasciarla cadere a tempo con le altre. Siamo all’interno del campanile di San Marco, a Vicenza, con il naso all’insù, dove ogni sera, alle 18.15 precise, i campanari di San Marco, guidati dal maestro Giuseppe de Facci, detto Bepi, si ritrovano per dare voce al campanile.
Volete rendervene conto di persona? Date un’occhiata a questo video.
(video realizzato da Marta Randon)
La più antica scuola della Diocesi
A San Marco c’è la sede della più antica Scuola campanaria della Diocesi, nata a Monte Berico 100 anni fa, trasferita in questa parrocchia da cinquant’anni, nel 1968. Da allora si è sempre dedicata alla salvaguardia del patrimonio campanario e del “paesaggio” acustico insegnando ai giovani i segreti di un’arte in via d’estinzione.
«Dobbiamo essere candele accese – dice Livio Zambotto, 35 anni, cultore del suono delle campane e direttore del gruppo Campanelli a mano della Scuola di S. Marco nato nel 2004 -. La campana fa parte del patrimonio artistico uditivo della città. Il turista, esattamente come vede i parchi, i palazzi, le ville palladiane, ascolta il suono delle campane. Non abbiamo solo la vista!» «Il loro suono – continua – è un modo di comunicare e varia a seconda del luogo, della zona geografica. La tradizione vicentina è diversa da quella veneziana, o da quella milanese. Noi suoniamo alla base del campanile e tiriamo le corde, a Bologna, ad esempio, salgono di fianco alle campane».
«Dobbiamo essere candele accese»
«Tenere la campana in equilibrio è molto difficile – spiega Andrea Comparin, 27 anni, diplomato al Conservatorio Pedrollo in musica elettronica, con un tesi sul suono della campana, tenendo in mano lo spartito della prossima melodia -. Ho imparato da piccolo con i miei amici a Polegge, dove abbiamo lo stesso sistema a corde. Prima ho cominciato con la batteria, poi con le campane. I bronzi hanno pesi e grandezze diverse. Ognuno corrisponde a una nota. Ogni campanaro deve conoscere le sue campane e la squadra deve essere affiatata».
Più grave è la nota, più pesante è la campana; più la nota è acuta, più la campana è piccola. Le grandezze vanno da un diametro di due metri, fino alle più piccole con diametri di qualche decimetro.
In “tour” una volta a settimana
Ogni domenica mattina il gruppo di campanari – una ventina, molti giovanissimi – gira per le chiese del centro storico: «Cominciamo da San Felice, poi San Rocco, San Lorenzo, i Filippini, San Marco, Santo Stefano, San Pietro e San Giuliano», racconta Matteo Rancan, 24 anni, appassionato di musica anni Ottanta- Novanta. Chi ogni sera non perde un appuntamento alla base del campanile di San Marco è Daniele Maculan, 11 anni, di Polegge: «Ero a prendere il gelato, tornando indietro ho detto a mio papà che mi sarebbe piaciuto suonare le campane. Ho incontrato Livio (Zambotto ndr),
ed eccomi qui. Suonava anche mio zio. Da un paio di settimane partecipo ogni sera, bisogna tenersi in allenamento. Suonare mi rilassa».
Anche Matteo Rancan ha cominciato da giovane, aveva sette anni: «Suono da 16 anni e la sera insegno ai più piccoli. La scuola campanaria è gratuita, aperta a tutti. Mi impegno per tenere viva quest’arte, è importante sensibilizzare le persone. Quest’anno in particolare, con il Sinodo sui giovani, il campanile è protagonista: quante generazioni riunisce! Nel nostro gruppo dagli 11 agli 81 anni».
E a proposito di esperienza: «Quand’ero piccolo suonavo le corde del campanile di San Pietro alle 5.30 di mattina – ricorda il direttore Bepi de Facci, 74 anni, “campanaro” da oltre mezzo secolo -. Ora è tutto diverso perché la società è diversa. Il nostro compito è di cercare di preservare questo prezioso patrimonio. Dove ci sono campane, ci sono cristiani e la cosa che mi ha sempre stupito è che questo strumento è amato anche da chi non frequenta la parrocchia e non va a messa». Le campane non invitano solo alla preghiera, sono punti di riferimento e fanno compagnia anche se suonate “a stormo”, come dicono i poeti, cioè a “casaccio” da un’unica persona.