Tre anni. Lo stesso numero di anni che a Gesù bastarono, per riempire di parole e di opere un piccolo spazio di terra, ma sufficienti perché arrivassero fino a noi. Non per nulla contiamo gli anni con un numero che conta proprio il tempo “dopo Cristo”. Possiamo dire, dopo tre anni, che siamo “dopo la pandemia”? È in quel dopo che ognuno di noi è invitato a misurarsi. Perché non siamo disposti a molti bilanci. Siamo diventati una generazione che abita più volentieri le illusioni rispetto ai bilanci. Ed è una buona cosa che siamo fatti così. Se non fossimo capaci di previsione (un vedere in anticipo) non saremmo quello che siamo.
Senza previsione non ci sarebbe vita, forse ci sarebbe solo un accumulo di giorni, ci sarebbe una durata ma non ci sarebbe la novità. Perché la novità si presenta ogni giorno come possibile, ce la offre il tempo di ogni giornata che inizia, a patto la vita nel tempo (che i greci chiamavano cronos) non si trasformi in una vita cronica (qualcosa che dura, ma come pura ripetizione della stessa cosa).
Vivere insieme
L’esperienza della pandemia ciascuno la può leggere come un bilancio da fare in proprio. Ma qualcosa tocca anche il nostro vivere insieme, perché non possiamo dimenticare la bella dichiarazione di speranza che abbiamo letto su molti balconi delle nostre case. CE LA FAREMO! Era solo una previsione ? No! Era la dichiarazione di una regola di sempre: soltanto insieme possiamo affrontare qualcosa che ci colpisce tutti. E ognuno ha percepito il proprio lavoro come legato a quello degli altri, ognuno ha fatto la sua parte vincolandosi a delle regole, ognuno ha sentito dentro di sé che la sicurezza e la salute non sono “privati” ma “politici”, cioè nessuno sta bene ed è sicuro “da solo”. Molti si sono sentititi dentro questo vincolo, ed è questo che abbiamo misurare nel nostro bilancio, molti hanno cominciato a “star bene” (e a “far bene”), in forme molto diverse: pensiamo all’eroico lavoro negli ospedali, al rispetto delle protezioni (mascherine, distanze, chiusure varie …), alla fiducia nella scienza e nella medicina (non bastava solo la preghiera … e non non bastava ad aiutarci solo il denaro). Credo che ognuno dovrebbe tenere in conto questo misterioso “star bene” che è il motivo di ogni “far bene”, proprio quando non abbiamo tutte le certezze, quando non abbiamo tutte le autonomie, quando non abbiamo tutto il potere di fare quello che ci pare e piace. C’è un solo nome per tutto questo: la fiducia. Non ci siamo messi a discutere sulla fiducia, ma l’abbiamo trovata come energia capace di muoverci, di pazientare, di informarci, di rispettare e di proteggerci insieme. È pur vero che qualcuno ha cominciato a “star male” in altre forme, altrettanto strane, che sono state tutte “contro la fiducia”: il sospetto. Sospettare di questo… e di quello.
Non si vive di sola certezza
Ma a guardare meglio la cosa, chi ha vissuto l’esperienza della fiducia non aveva la certezza, e chi ha vissuto l’esperienza del sospetto non aveva la certezza. Noi non viviamo di sola certezza! Tre quarti della nostra vita è appesa alla fiducia. E se la pandemia ha allenato a questo la maggior parte, mi domando se sono in questa maggior parte, e come non perdere questo tesoro. Senza dare la colpa all’economia, ai politici, alla società … la fiducia è nella mia pelle, respira con i miei polmoni, fa star bene perché sta bene. Il problema è trovare il modo per coltivare questa fiducia. Frequentando concretamente luoghi di fiducia (là dove ci aiutano a scrivere «dentro di noi» il cartello: CE LA FAREMO!).
Confusione
Se c’è una cosa del post-pandemia che può essere raccolta come provocazione, forse è la confusione. L’Organizzazione mondiale della sanità ha introdotto un termine nuovo proprio in occasione del Covid, per segnalare un virus mondiale apparso insieme al virus respiratorio, che ormai ben conosciamo: infodemia. Come una nuova patologia, di cui ha dato questa definizione: «Abbondanza di informazioni (alcune accurate altre no) che rendono difficile trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno». Non è il problema dell’abbondanza di notizie, ma dell’affidabilità. Cioè di informazioni di cui possiamo fidarci. E di che cosa possiamo fidarci, dopo la pandemia di Coronavirus? Su questo punto, il bilancio pandemico apre ciascuno di noi su una previsione. Quando sono infettato da una falsità di informazione io contagio altri. Che non è il problema di sospettare degli altri (in questo caso è proprio la fiducia che muore soffocata), è invece la cura di fare respirare, nel mio respiro, la fiducia (se c’è fiducia «in me»). Una fiducia che si potrebbe concretizzare così: io sto bene quando faccio star bene. Dare la colpa a qualcuno è un modo contagioso per distruggere questa fiducia. Dare la cieca approvazione a tutti quelli che parlano di complotti, è una delle forme di stupidità moderna alla quale non devo consegnare la mia fiducia. La salute e la sua cura pubblica, deve restare una delle basi fondamentali del realismo da proteggere (altrimenti il personale della sanità pubblica li abbiamo presi in giro…). La regola del «ciascuno fa quello che vuole» è la più diffusa falsità dello star bene, perché consacra in pieno quell’isolamento che tutti abbiamo sentito come inumano, non degno di noi.
«Segni dei tempi»
E da ultimo, la pandemia è uno di quelli che il concilio chiamava «segni dei tempi». Ma di quale tempo? Anzitutto del tempo già passato (questi tre anni), del tempo del già sperimentato, di quello che abbiamo già visto e già sentito. Dunque un segno dei tempi da custodire. In secondo luogo del tempo che verrà, il tempo verso il quale stiamo andando, il tempo che ci sta davanti, con tutte le sfide di sicurezza che ci aspettano: la protezione dell’ambiente, la cura dei più deboli, la giustizia e la pace, un cristianesimo più umile e più giovane, la rianimazione della democrazia … e il grande futuro del lavoro con una economia, piuttosto che di una economia senza lavoro. Dunque un segno di un tempo da programmare. E tra il tempo passato e il tempo futuro c’è un terzo tempo, l’unico che abbiamo adesso sotto i piedi e tra le mani, il tempo presente. Dunque un programmare che sia «cominciare da qualche parte». Se la pan-demia è un «segno dei tempi» chiede di chiudere la discussione sul passato, di aprire di più la questione del futuro, con una più coraggiosa e quotidiana fiducia nel tempo presente. Proprio qui c’è la forza di una delle più buone parole di Gesù, seminata nei suoi tre anni per le strade della Palestina: «Vai … la tua fede ti ha salvato». Fidarci di Qualcuno che ha fiducia in noi, fiducia di un altro nella mia fiducia (che salva), la mia fiducia nella fiducia di altri (non salvo me stesso, e basta!).
CE LA FAREMO? Se ognuno lo scrive «dentro di sé» certamente sì!