Con la celebrazione eucaristica di domenica 3 dicembre, alle 10, in Cattedrale il vescovo Beniamino festeggerà i suoi 50 anni di sacerdozio e concluderà il suo ministero episcopale, per raggiunti limiti di età, e saluterà così anche i fedeli della Diocesi. Lo abbiamo incontrato per fare memoria, con questa intervista, di questi dieci lustri da presbitero.
«Nelle occasioni in cui facciamo memoria degli anniversari significativi della nostra vita, o in cui ci troviamo di fronte a dei tornanti importanti della nostra esistenza, si corre il rischio di porre attenzione su noi stessi, quasi fossimo al centro della scena – osserva mons. Pizziol -. A me piace comprendere questi avvenimenti alla luce della fede in Dio, Padre buono e misericordioso, che guida le sorti del mondo e di ciascun uomo e ciascuna donna. Per questo le domande fondamentali che mi pongo sono queste: “Come ho riposto alla chiamata di Dio nella storia della mia persona?” “Come Dio ha agito attraverso la mia persona?”».
Che sentimenti prova quando pensa al 3 dicembre 1972 e alla sua ordinazione?
«Allora avevo 25 anni. Ero pieno di vita e di entusiasmo. Confidavo molto nei miei studi, nei miei progetti pastorali, nell’ascendente sui giovani, nella benevolenza degli adulti. L’ordinazione presbiterale, avvenuta domenica 3 dicembre 1972, dalle mani del Beato Albino Luciani, è stata un evento di popolo, dai più piccoli ai più grandi; c’erano anche alcuni giovani commossi che piangevano, forse perché non avevano mai partecipato a una simile celebrazione. C’era molta attenzione su di me, sul giovane prete, sulla comunità parrocchiale molto attiva e intraprendente anche nel contesto sociale di quegli anni. Con uno sguardo retrospettivo oggi, forse più maturo nella fede, provo sentimenti di stupore e di gratitudine verso il Signore Gesù e verso la sua Chiesa. Stupore perché il Signore, paziente e misericordioso, si è servito anche delle mie fragilità e dei miei limiti per realizzare il suo progetto. Gratitudine perché ha saputo attendere con pazienza, come ha fatto con i suoi apostoli, la mia maturazione nella fede e lo spostamento del baricentro dal mio io alla sua adorabile persona».
Ha mai pensato che avrebbe potuto fare una scelta vocazionale diversa?
«In realtà sì. Nel mese di settembre 1972 fui chiamato dal Direttore didattico di Zelarino per l’insegnamento come maestro in una classe elementare di quel paese. Ero molto lusingato e attratto da questa prospettiva, influenzato dallo studio e dal fascino del libro “Lettera a una professoressa” di don Lorenzo Milani. L’insegnamento nelle scuole mi ha sempre affascinato e non a caso ho fatto l’insegnante di religione per 24 anni. Di fronte alla proposta ho riflettuto molto, e sono stato incerto fino all’ultimo. Ho parlato con il mio padre spirituale, con il vescovo Luciani e con alcuni amici fidati. Così mi sono reso disponibile per il diaconato a ottobre e il presbiterato a dicembre, di quello stesso anno».
C’è qualcuno o un fatto in particolare che è stato decisivo per la sua scelta presbiterale?
«Il momento decisivo per la mia vocazione è avvenuto nel campo di pallacanestro della parrocchia di San Lorenzo Giustiniani a Mestre, dove sono stato ordinato e dove ho svolto il ministero di “cappellano” per nove anni. Uscito da messa ho sentito un gruppo di giovani che litigavano, si bastonavano e si scambiavano insulti volgari. Mi sono avvicinato, li ho redarguiti e li ho invitati a riprendere il gioco, in modo più bello, sportivo, gioioso. Mi sono reso disponibile a fare da arbitro e in quel contesto ho percepito che il Signore mi chiamava a “prendermi cura” di quei giovani (tornava alla mente il motto “I care” di don Lorenzo Milani) e di aiutarli nel loro sviluppo umano, sociale e religioso.Era il mese di ottobre del 1972, dopo qualche giorno sono andato dal Patriarca Luciani e gli ho detto che ero disponibile, a Dio piacendo, a essere ordinato prete».
Che tipo di prete è stato Beniamino Pizziol?
«Sarebbe interessante conoscere il pensiero di chi ha vissuto insieme a me, gli anni del mio sacerdozio, ha lavorato con me, ha condiviso le gioie e le fatiche, ha conosciuto i miei limiti e ha colto qualche piccolo pregio. Da parte mia posso dire di aver cercato di essere un prete dal volto umano, vicino alla gente, capace di condividere le gioie e le sofferenze delle persone, fedele alla parola data, sforzandomi, con l’aiuto di Dio, di essere testimone credibile di quello che celebro e predico».
Cosa apprezzava dell’essere e del fare il prete?
«Apprezzavo e apprezzo l’ascolto e il dialogo con le persone, la meditazione e la predicazione della Parola di Dio, la partecipazione quotidiana alle vicende positive e a quelle dolorose della vita delle persone e delle comunità cristiane e civili».
Come è cambiato il ministero del prete in questi 50 anni?
«Il ministero fondamentale di un prete che è quello di annunciare e testimoniare Cristo nella sua vita, con la predicazione, la celebrazione dei sacramenti, la prossimità alle persone, specialmente le più povere e in sofferenza, è rimasto sempre lo stesso. In questi 50 anni è cambiata la società civile, sono cambiate le comunità cristiane ed è cambiata la modalità di essere prete. Si tratta di ripensare le vie della evangelizzazione, in una dimensione più aperta e meno centrata sulla comunità presente nelle nostre parrocchie».
Cosa è rimasto del don Beniamino di 50 anni fa, una volta diventato Vescovo?
«In un prete, come in un laico, prima ancora della dimensione di fede ci vuole una sana umanità che sia dono dei genitori e impegno personale: se uno, per esempio, è focoso deve lavorare su se stesso per sapersi controllare. Da questo punto di vista credo di avere avuto dai miei genitori una buona umanità che mi permette, per esempio, di non arrabbiarmi facilmente e di accogliere le persone così come sono. Dentro al proprio carattere si innesta la dimensione di fede. Credo sia rimasto il mio Dna umano, il desiderio di dialogare, di mantenere sempre la parola data. Ora, con la conclusione del ministero episcopale, spero di recuperare una certa normalità, che da Vescovo, inevitabilmente non puoi avere».
Cosa si sente di dire ai preti giovani, che iniziano il loro servizio presbiterale?
«Quello che mi sentirei di dire è invitarli a passare dalla preminenza del proprio io alla interiorizzazione dell’Io di Cristo. Una delle mete fondamentali è arrivare a dire come Paolo “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me”. È quello che io chiamo “lo spostamento del baricentro”. Non pretendo da loro che subito capiscano questo, ma che si rendano disponibili a questo percorso».
C’è un regalo che le fecero quando fu ordinato sacerdote al quale è ancora legato?
«Il calice che mi aveva lasciato il Padre rettore del Seminario di Venezia, mons. Aldo Da Villa, e che lui aveva ricevuto da un suo zio. Gli avevo fatto da segretario ed è morto di infarto davanti a me, nel mese di giugno del 1967. Nel testamento aveva stabilito che se fossi diventato prete mi avrebbe lasciato il calice. Questo calice è quello che uso ogni giorno nella messa e al quale sono affettivamente legato».
Quale è il suo augurio al vescovo Giuliano che arriva e alla Chiesa che è in Vicenza, in questo momento di passaggio?
«Lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio, nel cammino sinodale che coinvolge la Chiesa italiana e la Chiesa universale, con tanta fiducia, gioia e generosità».