Si chiamava Agostino Faccin ma per tutti era il Moro Frun: una figura reale e al tempo stesso leggendaria per la storia del Monte Grappa tra Otto e Novecento. Dapprima giovane pastore d’alpeggio, poi paròn di malga, guida per il turismo montano agli albori, e soprattutto primo gestore della capanna-rifugio sulla cima del Massiccio. È lui “Il Moro della cima”, protagonista del romanzo di Paolo Malaguti appena pubblicato da Einaudi (280 pagg., 19,50 euro).
Malaguti è uno scrittore di casa ovunque nella Pedemontana veneta (padovano di origine, vive nel trevigiano ed è radicato nel bassanese), talmente affascinato dal Grappa e dalle storie che custodisce da continuare a salirci anche nei suoi romanzi. Il Moro Frun compariva già nell’esordio dell’autore, l’apprezzato “Sul Grappa dopo la vittoria“, ma ora la sua incredibile storia trova la giusta dimensione.
La prima parte di questo romanzo storico prende le tinte del racconto di formazione, con il Moro che fin da bambino sente il richiamo delle altezze, alza lo sguardo verso “la Grapa”, e comprende di sentirsi a casa solo tra i boschi e i pascoli d’alta quota. Lassù, nel vento e nella luce pura, trova una libertà che mai aveva sperimentato, e “anno dopo anno, la sua convinzione che la montagna fosse l’unico posto in cui valesse la pena vivere crebbe e si confermò”.

La montagna – non una qualunque ma “la Grapa”, è l’altra grande protagonista del libro, che da un certo punto di vista potremmo definire come il romanzo dell’amore, lungo una vita, fra il Moro e la Grapa. Per tutto il libro il Moro non smette di guardare alla montagna e di coltivare un rapporto personalissimo con essa, e anzi si sostanzia sempre più come uno sguardo testimoniale anche per noi lettori. Attraverso di lui conosciamo le prime radicali trasformazioni nel modo di vivere quell’ambiente: non più solo alpeggio ma anche escursionismo, e dunque la necessità di un rifugio sulla cima e di un gestore. Malaguti ricostruisce bene il contesto storico e alcune tappe decisive (come la salita a dorso di mulo del Patriarca Sarto, futuro san Pio X, per l’inaugurazione della statua della Madonnina del Grappa) di quella che il Moro percepisce come un’appropriazione talvolta indebita da parte della “pianura”. E lo sguardo del Moro fa pensare alla poesia di Giacomo Noventa, “Par vardar”. Se la prima strofa (“Par vardar dentro i cieli sereni,/ là su sconti da nuvoli neri,/ gò lassò le me vali e i me orti,/ par andar su le cime dei monti”) sembra fare eco al senso di libertà serena e viva della prima parte della vicenda del Moro Frun, la seconda strofa è presagio di quanto avverrà sul Grappa con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale: “Son rivà su le cime dei monti,/ go vardà dentro i cieli sereni,/ vedarò le me vali e i me orti,/ là zo sconti da nuvoli neri?”.
Quello del Moro è infatti uno sguardo preziosissimo sull’impatto della Grande Guerra sul Grappa, “gigante inerme”, e sulle sue pendici. Non si tratta quasi mai di uno sguardo diretto sul fronte di guerra, quanto piuttosto di un punto di vista interessantissimo sulle retrovie e sulle conseguenze, capace di vedere anche le cose della seconda e terza fila che la propaganda e la retorica tendono a nascondere o dimenticare. La scrittura di Malaguti e il tono del libro si innalzano sempre più, in questa seconda parte, per raccontare la rovina della guerra: “la montagna non era più lei”, “la sua Grapa pareva aver cambiato pelle”. E anche dopo l’armistizio, il Moro capisce ben presto che aver vinto la guerra non vuol dire averla finita. Viene il tempo della devastazione da ricomporre, dei corpi da recuperare, del pellegrinaggio rischioso dei recuperanti. Il tempo della retorica degli eroi senza nome e di regni e regimi senza responsabilità. “Il sacrario era la tomba per migliaia di soldati. Ma era anche la tomba della montagna”. La sua amata cambia nome e al Moro tocca un’amara constatazione: “Quel piattume arido di sassi frantumati era il Grappa, non più la sua Grapa. Il Grappa, sì, adesso il maschile ci stava proprio bene. […] Era diventato quello che avevano cercato e voluto dalla guerra in poi. Il monte, il simbolo del popolo vittorioso, il sarcofago dei guerrieri morti nel fuoco e nel ferro”. Eppure (ma non ne sveliamo il motivo) l’ultimo gesto del vecchio Moro Frun sarà una risata libera e viva, come è stata la sua esistenza.
Alternando pagine di grande godimento affabulatorio a passaggi più lirici e di intensità commovente, con “Il Moro della cima” Paolo Malaguti ci regala insomma un personaggio indimenticabile e un’ulteriore conferma della sua abile maturità di scrittore, capace di raccontare la Storia con la lingua delle storie minori.
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