Snaturato dal commercio, edulcorato dagli slogan pubblicitari (vedi “A Natale si può dare di più”), schiacciato tra guerre e carestie, il Natale di Gesù Cristo sembra faticare a trovare posto nel mondo. Ha ancora senso festeggiarlo? Lo abbiamo chiesto a Mariapia Veladiano, scrittrice vicentina che a maggio sarà un libreria con un nuovo romanzo ambientato a Vicenza.
Mariapia, serve ancora oggi il Natale in un mondo che sembra andare in tutte le direzioni tranne verso quella annunciata nel Vangelo?
«Era ben difficile anche il tempo in cui Gesù è nato. Povertà estreme, oppressione, l’occupazione romana portava con sé un corredo di mali che conosciamo dalla storia. C’erano i collaborazionisti come i sadducei, gli opportunisti come i pubblicani, Matteo era uno di loro, e poi chi sognava la rivoluzione violenta come gli zeloti. E anche se esisteva un filone profetico che annunciava il Messia in termini di pace fra gli uomini e con il mondo della natura, l’idea che fosse necessario arrivarci con la forza era quella più diffusa. Per cui un Messia forte, condottiero senza paura. Invece arriva un bambino che per sopravvivere ha bisogno di un mondo di cura e che quando da grande si manifesterà dirà che il mondo si salva se noi cambiamo il nostro cuore, se deponiamo l’idea del potere, sia pure dalla parte giusta, e accogliamo la vocazione al servizio. Una rivoluzione. È passato il messaggio del Vangelo? Sì e no. Sì perché un mare di bene è stato fatto e viene fatto nel nome di Gesù. No perché ancora tanto male esiste. Ma non c’è strada diversa da quella che vede disarmare i cuori e quindi sì, il Natale ha molto da dirci ancora oggi».
Un laico che significato può trovare in questa festività?
«Il Natale è stato sequestrato dal mondo del commercio e frantumato sotto forma di luci, pacchi dorati con fiocchi scarlatti, cenoni, sprechi e alla fine indigestioni. La deriva commerciale del Natale tocca anche i credenti, che fanno fatica a restare fedeli al significato religioso. Un’indagine dell’Osservatorio del Nord Est che esce oggi (mercoledì 21 ndr) ci dice che anche in chi crede prevale il significato identitario del Natale, su quello religioso. Eppure se il Natale piace e, sia pure in modo problematico, viene sentito da tanti, vuol dire che ha in sé una verità che colpisce il cuore degli uomini. Credo che sia esattamente la sua verità di fede, che il mondo è cosa buona, gli uomini possono accogliere Dio e gli altri uomini. Che amare è infinitamente preferibile all’essere potenti».

Si tende a mettere in luce sempre il lato “tenero” del Natale, che c’è, ma vi sono anche degli elementi di “rottura” molto forti nei testi del Vangelo che leggiamo in questi giorni. Quali la colpiscono di più?
«La nascita di Gesù ha comportato un mare di energie. Prima Maria e Giuseppe devono cercare, in fretta, un luogo per il parto. Poi Maria partorisce in condizioni decisamente precarie, poi devono scappare, subito, lontano, da perseguitati che devono migrare. Niente accudimento di Maria da parte delle donne del villaggio, niente pace nella propria casa. È così. Il bambino che nasce muove il mondo alle proprie responsabilità. Altrimenti muore, semplicemente».
La famiglia di Gesù è dovuta quasi subito fuggire dopo la nascita del bambino. Ricorda storie di persone migranti che abbiamo davanti ogni giorno. Perché secondo lei, pur con un Vangelo così esplicito, facciamo così fatica ad essere aperti al prossimo?
«Perché abbiamo paura e anche perché non sappiamo bene come fare ad aiutare davvero. Le migrazioni rappresentano un fenomeno complesso che richiede interventi radicali sullo scandalo del divario fra ricchi e poveri e sul cambiamento climatico che ora sta inducendo a spostarsi un numero enorme di persone: si calcola che saranno 260 milioni i rifugiati climatici nei prossimi anni (fonte Unhcr). E qui serve una politica di alto profilo che cooperi ad altissimo livello per soluzioni comuni. La politica che dice “se ti piacciono i migranti, portateli a casa tua” fa un’operazione sottilmente indecente, da un lato perché viene meno al suo compito, che è “sortire insieme”, direbbe don Milani, dei problemi collettivi, e dall’altro alimenta il senso di colpa nei cittadini, perché è ovvio che non tutti possono accogliere migranti in casa e sarebbe anche sbagliato senza supporti adeguati da parte pubblica. La riprova è venuta con le persone arrivate dall’Ucraina. Si è mosso il mondo politico e così anche i singoli hanno trovato il modo di attivarsi positivamente e aiutare come hanno potuto. È chiaro che se invece si alimenta la paura non si va da nessuna parte. La paura ci rende reattivi, si risponde d’istinto e senza riflessione, si fa branco per difenderci. L’Osservatorio europeo sulla sicurezza mostra il ruolo che hanno le notizie ansiogene sulla percezione della sicurezza. Ecco, i telegiornali italiani sono fra quelli più ansiogeni in Europa. C’è da pensare. Non si tratta ovvio di non dare le notizie, ma di darle nel modo giusto, offrendo sempre percorsi di pensiero e non di paura».
Nel libro postumo “Black Tulips”, Vitaliano Trevisan afferma che “Scrivere, per quanto atto privo di speranza, o forse proprio per questo, significa aver fede”. Come scrittrice sente la responsabilità di tenere viva questa “fede”?
«Si può essere privi di speranza. Ma scrivere è un atto di fede perché la scrittura, anche la più privata, chiede un ascoltatore. La parola lasciata lì non risuona, non è niente. Se qualcuno ci butta gli occhi, anche l’altro sé di noi, non è mai un atto che chiude. È un atto di apertura e di fiducia. Tutto questo mi fa pensare a Rigoni Stern e alla sua capacità di vedere bellezza al di là della tragedia, perché la natura è salvifica. Sì, sento la responsabilità di custodire la speranza».
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