La terribile siccità dell’anno appena passato non è un brutto ricordo, bensì una minaccia costante. La scarsità di precipitazioni ha abbassato il livello generale delle falde nella media pianura veneta, di cui fa parte la maggior parte del territorio diocesano tra Vicentino e Alta Padovana. Seppure con qualche differenza da zona a zona, il quadro resta davvero preoccupante.
L’ultimo bollettino di Arpav sulla risorsa idrica segnala che tra ottobre e gennaio sono caduti in Veneto mediamente “304 mm di precipitazioni; la media del periodo 1994-2021 è di 385 mm”. Nel mese di gennaio “sono caduti mediamente in Veneto 69 mm di precipitazione; la media del periodo 19942021 è di 58 mm”. Per quanto riguarda le falde, “le precipitazioni della parte centrale di gennaio hanno fatto proseguire le dinamiche di ricarica”. Tuttavia, “la situazione di scarsità della risorsa idrica permane. Per arrivare a primavera-estate con i livelli consueti per il periodo servirà un fine inverno e un inizio primavera con precipitazioni superiori alla norma”.
«Il bacino realizzato a Breganze, nelle immediate vicinanze di Schiavon, è rimasto praticamente vuoto -a parlare è direttamente il presidente del Consorzio Enzo Sonza-. Il fatto è che le precipitazioni sono state comunque scarse nelle ultime settimane, nel senso che la pioggia non ha avuto quella minima intensità in grado di compensare i livelli precedenti». La situazione appare più evidente essendo il risultato continuato della scarsità di piogge, perlomeno, dalla primavera del 2022. Continua Sonza: «Siamo partiti molto peggio rispetto agli anni precedenti: solo dodici mesi fa era a livelli normali. Speriamo che ci aiuti qualche nube in più. Servirebbero almeno 300 millilitri di acqua, ne sono piovuti poco più di una quarantina». Le parole del presidente del Consorzio fanno da cassa di risonanza ai timori per le conseguenze del cambiamento climatico. Non è un caso che si parli sempre più spesso di tropicalizzazione dell’area mediterranea, con estati caldissime e fenomeni estremi sempre più frequenti. Lo si è ribadito pure negli incontri territoriali degli ultimi mesi di Legambiente, assieme ai comitati cittadini, alla politica locale e alle associazioni di categoria, dove seguiva l’inevitabile domanda “che fare per garantire il più possibile l’acqua a tutti?”. In realtà sono due le strade da percorrere, meglio se in simultanea.
Una consiste nell’aumento delle risorse per le emergenze, come i bacini di accumulo: l’esempio del Corlo (BL) è calzante, con i suoi 33 milioni di metri cubi di acqua ha evitato la perdita delle colture in pianura. A cui si aggiungono i piani di ricarica delle stesse falde, per cui servono ovviamente finanziamenti consistenti. «Avevamo chiesto alla Regione Veneto di realizzare un sistema di ricarica già nel 2012, il progetto “Democrito”. Alla base c’era un accordo di programma. In oltre un decennio, tuttavia, non abbiamo visto un euro dei 6 milioni previsti» è il commento sconsolato dello stesso Zonta. Più nel dettaglio, si trattava di intervenire sulle risorgive attraverso le aree forestali di infiltrazione (Afi): le acque sarebbero state distribuite, nei mesi non irrigui, all’interno di aree appositamente allestite con una rete di scoline e altri accorgimenti. Purtroppo ne sono state realizzate solo 16 sulla cinquantina previste, fa sapere lo stesso Consorzio. L’altra via da percorrere è quella dell’educazione contro ogni forma di spreco idrico. A livello di utenza comune, con le raccomandazioni quotidiane che vanno dal chiudere i rubinetti al non lavare sempre l’auto in casa. A livello di attività agricole, con l’utilizzo di sistemi di irrigazione più moderni ed efficienti come quelli a goccia. Quindi a livello di acquedotti, i cui dati parlano di perdite tra il 30 e il 50 per cento della quantità idrica trasportata.
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