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Eraldo Affinati: «Con Giuseppe il Papa rilancia l’idea di una nuova paternità»

Per i 150 anni dalla dichiarazione del patrono della Chiesa universale, Francesco ha pubblicato la lettera apostolica "Patris Corde" in cui invita a guardare con attenzione al papà di Gesù.
di Lauro Paoletto

Lo scorso 8 dicembre, in occasione della festa dell’Immacolata, papa Francesco ha firmato la lettera apostolica “Patris corde” (Con cuore di Padre) in occasione del 150° anniversario della dichiarazione di San Giuseppe quale patrono della Chiesa universale, confermando così una attenzione che sempre i pontefici hanno avuto per la figura di Giuseppe. Pio IX nel 1870 decise la dichiarazione a patrono della Chiesa, Pio XII lo ha, quindi, presentato come “Patrono dei lavoratori” e Giovanni Paolo II come “Custode del Redentore”. Papa Francesco considera Giuseppe uomo, sposo, padre, lavoratore, credente e rimette al centro l’esercizio e il compito della paternità. Per cogliere il significato di questa decisione di papa Francesco, che acquista un significato particolare per il momento storico in cui avviene e a poche settimane dal Natale abbiamo raccolto il parere di Eraldo Affinati, insegnante e scrittore.

Affinati, cos’ha pensato quando ha saputo della decisione di papa Francesco di dedicare un anno alla figura di San Giuseppe?

«Mi è sembrata un’iniziativa in perfetta sintonia con lo spirito più autentico di questo pontificato. Il falegname di Nazareth rappresenta un concentrato dei valori rilanciati da papa Francesco: l’importanza del nascondimento e del servizio, l’elogio delle seconde linee, il richiamo alla dignità del lavoro, lo sguardo dal basso, la fede come atto di volontà… Oltre naturalmente all’idea di una nuova paternità».

Che paternità esprime il papà putativo di Gesù?

«Ci fa capire che i figli non sono soltanto di chi li ha generati, ma anche nostri. Padri si diventa. Si tratta di una condizione, prima ancora che biologica, culturale, tutta da acquisire e da esercitare. Appena assumiamo la responsabilità dello sguardo altrui, entriamo in una dimensione paterna. Direi che questa è l’essenza del cristianesimo».

In un tempo in cui si continua a denunciare la debolezza dei padri nella società, questa figura può rappresentare un modello di paternità? Se sì in che senso?

«È vero che oggi, lo dico anche facendo perno sulla mia esperienza di insegnante, gli adulti sono spesso fragili. Diciamo che ritardano la scelta. La posticipano. Spesso restano fermi al crocicchio, disponibili a percorrere ogni sentiero. Allora Giuseppe ci insegna che arriva un momento in cui devi imboccare una strada e non tornare più indietro. Se lo farai, anche i giovani ti seguiranno. E tu non dovrai avere nostalgia di ciò che avresti potuto fare. Inoltre questo padre putativo ci ricorda che bisogna accettare l’autonomia dei figli: controllarli sì, ma non imprigionarli. Nel momento in cui loro diventano grandi, anche noi siamo felici, anche se prima abbiamo sofferto».

Molte volte si sottolinea il Sì di Maria. Ma anche Giuseppe non ha scherzato in fatto di fiducia in Dio. Cosa ne pensa?

«Credo davvero che il sì di Giuseppe all’angelo che gli appare in sogno sia di portata pari a quello, commovente e meraviglioso, di Maria. È un’adesione profonda, presuppositiva, che va oltre le categorie logiche. Prima di quel sì Giuseppe era un uomo tormentato, consumato dall’ansia, sull’orlo del baratro. Diffidava di tutti, non sapeva dove sbattere la testa, pensava di essere stato ingannato. Dopo aver fatto la sua scelta, diventa un altro uomo: sereno, equilibrato, operoso, pronto a tutto».

Di Giuseppe colpisce il silenzio. Che indicazione possiamo cogliere in questo?

«È un aspetto che anch’io ritengo essenziale. Ci sono alcuni dipinti di Giambattista Tiepolo sulla “Fuga in Egitto”, uno conservato a Stoccarda, l’altro a Lisbona, sui quali negli anni ho molto ragionato. Si vede la coppia durante una sosta sul greto del ruscello. L’asino è la cosa più sveglia che c’è. Maria accudisce il bambino avvolto in un fagotto. Giuseppe sembra una macchia scura nascosto dentro il saio. Sta reclinato su se stesso, come per dirci: io non capisco sino in fondo ciò che sto facendo. Vado avanti lo stesso con tutto il mio cuore perché sento che è giusto. Come poi scrisse Dante nel XXIV canto del Paradiso: “Fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi / e questa pare a me sua quiditate”». 

E cosa dice alla nostra Chiesa la figura dello sposo di Maria?

«Giuseppe rappresenta sempre una spina nel fianco dell’istituzione ecclesiastica: lui ci insegna la povertà, il sudore, l’odore della stalla. Ci fa capire cosa significa essere esuli e migranti. E io mi chiedo: perché abbiamo dovuto aspettare questo Papa sudamericano per rendercene conto?».

Quali indicazioni possiamo ricavare da Giuseppe per vivere questo tempo così complicato della pandemia? 

«Giuseppe non perde mai la speranza, nemmeno nei giorni difficili dell’incomprensione e della mancata accoglienza. Questa è la prima cosa. Ma quando la pandemia sarà finita, non dovremo dimenticare lo smarrimento che abbiamo provato. Nel tempo vuoto del lockdown si cela il senso profondo dell’esistenza, segnata dalla finitudine a cui dobbiamo attribuire un senso. In futuro soprattutto noi educatori saremo chiamati a recuperare nei ragazzi il sentimento di coralità che, nei momenti drammatici della malattia e della solitudine assoluta, ci ha fatti sentire più uniti».