Intervista

Don Gildo Reato compie 90 anni. E si racconta

di Marta Randon

Don Ermenegildo Reato è un uomo alto, mite e gentile. Un signore d’altri tempi, che non ha perso l’ironia e che appoggia delicatamente le labbra sulla mano delle signore prima di congedarle. Venerdì 6 luglio compie 90 anni. I familiari e gli amici lo festeggeranno domenica 8 luglio alla messa delle 10 nella chiesa di San Rocco a cui seguirà un brindisi augurale. Lo incontriamo una mattina nella sua stanza dalle travature a vista nella casa di riposo Novello, in zona San Rocco a Vicenza.

Mons. Reato, come sta? Come si sente?

«Abbastanza bene, non ho malattie particolari, ho poca forza, non ho energie, ma non posso lamentarmi. Bisogna prepararsi al passaggio».

Sacerdote, storico, scrittore, professore, rettore. Quali di questi ruoli l’ha reso più orgoglioso di se stesso?

«Più che essere orgoglioso di me, devo ringraziare gli altri. Ho avuto tutto ciò grazie alla fiducia dei miei superiori, dei vescovi di Vicenza e di altri colleghi e maestri che ho incontrato nella mia vita di studioso, soprattutto all’Istituto di Ricerche di storia sociale e religiosa, nelle varie istituzioni che mi hanno chiesto collaborazioni a cominciare dalla Cattolica di Milano, e dall’Istituto Paolo VI di Brescia».

Che bambino era Ermenegildo?

«Provengo da una famiglia di poveri contadini, allora bisognava accontentarsi di lavorare tanto e pagare molto affitto. Sono nato e cresciuto a Piazzola sul Brenta dove il duca Camerini, che gestiva un specie di feudo molto grande, era esigente sui pagamenti al punto che faceva controllare la quantità di frumento che usciva dalla trebbia. Sono l’ultimo di sei fratelli – quindi un po’ vezzeggiato – e porto lo stesso nome del penultimo che è volato in cielo a due anni. I miei due fratelli maggiori si chiamavano Angelo e Dionisio, le due sorelle Assunta e Pasqua. I miei genitori Giuseppe e Giuseppina».

La vocazione quando e come è arrivata?

«È arrivata perché mia mamma era molto devota. Spesso andavo in chiesa con lei la mattina presto, ricordo che mi portava via la colazione. Messa, colazione e poi mi accompagnava a scuola. Aveva una grande umanità, era molto coraggiosa, alla fine era sempre lei che andava a battere le porte, vivevamo davvero nella povertà. Credo che la vocazione sia arrivata per il senso di ammirazione per le cose fastose che vedevo. Sentivo qualcosa che mi entusiasmava. Frequentai le associazioni cattoliche, trovai un bravo sacerdote, mite, don Ernesto Bicego, che mi aiutò a superare le difficoltà economiche. La retta del seminario a quei tempi era abbastanza elevata. Ci aiutò insieme ad altre persone che devo ricordare con tanta riconoscenza».

Il primo impegno da prete se lo ricorda?

«Celebrai la prima messa il 26 giugno 1955. Avevo 27 anni. Fui mandato a Lonigo, dove lavorai con l’arciprete della Cattedrale, mons. Albiero. Uomo di grande prudenza e intelligenza, faceva delle prediche stupende, c’era molto da imparare. Lavorai lì per 7 anni, fino al 1962, nell’assistenza alle coppie che si preparavano al matrimonio, nell’ufficio parrocchiale e alle Acli, in tutto il territorio. Poi mi spostarono a Vicenza, dove rimasi fino ad oggi. Ho frequentato anche corsi a Venezia di scienze sociali, il mio pallino».

È sempre stato appassionato di storia?

«Si perché per capire il presente bisogna studiare le radici. Per esempio adesso la posizione del vice-premier Salvini mi ricorda molto quella di Mussolini che approvò le leggi di esclusione degli ebrei».

Cosa pensa di questo Governo 5 Stelle-Lega?

«Siamo in alto mare. Non so fino a che punto Giuseppe Conte, riuscirà a tenere a freno Salvini. Quello evidentemente è una specie di Trump all’italiana. Quando il vescovo Rodolfi incontrò il Duce, quest’ultimo gli disse: “Quando un treno è in movimento non si deve fermare”. Rodolfi replicò: ”Quando si mette in moto un treno bisogna anche essere in grado di fermarlo”. Salvini evidentemente non si rende conto che tutti siamo immigrati. Chiaro che questo fenomeno una volta aveva delle dimensioni, adesso con gli strumenti di comunicazione che raggiungono ogni punto della terra, ne ha altre. Oggi essere vivi in alcune zone dell’Africa è un miracolo».

Cattolici e politica. La loro voce, oggi, è molto flebile.

«Bisognerebbe che i cattolici avessero il coraggio di prendere iniziativa. Naturalmente questo presuppone un’organizzazione, delle scuole di formazione. I cattolici bisognerebbe che allargassero gli orizzonti, mi sembra che stiamo un po’ scendendo, siamo in discesa con i freni rotti».

È preoccupato per il futuro della Chiesa, dei cattolici?

«Non ci vedo tanto chiaro. Il Pontefice dimostra molto coraggio, non soltanto per le iniziative, ma anche perché allarga lo sguardo. Dimostra di avere interesse per ogni persona di buona volontà. Si sta camminando verso la modernità. Chiaro che su alcuni principi non devono esserci dubbi. Sa, a 90 anni siamo più legati al passato che al presente, però credo che ci siano situazioni molto positive tra i giovani anche adesso. Penso al famoso Sinodo sui giovani: mi è piaciuta molto la recente proposta di Avvenire che chiede ai giovani di scrivere al Papa, è una maniera per coinvolgerli sui problemi che vivono e sentono. Le due questioni più urgenti a mio avviso sono il lavoro e la cultura».

Ha paura del “passaggio” di cui mi accennava prima?

«No. Spero che il Signore mi dia la forza di affrontare le sofferenze della fine, nessuno muore per troppa salute (sorride)».