Dalle aule di tribunale alla Congregazione dei Gesuiti. Da una vita apparentemente piena e felice: una fidanzata, la pratica in uno degli studi più prestigiosi di Vicenza, un dottorato in diritto penale a Padova, ai voti e alla vita in comunità evidentemente non meno significativa. Un cambio radicale, un percorso lungo 10 anni non sempre facile attraverso cinque città. È la storia di padre Cesare Sposetti, figlio del celebre primario di ostetricia Roberto, 36 anni, originario di Rettorgole, che domenica 2 maggio, alle 15.30, sarà ordinato sacerdote dal Cardinale Luis Antonio Tagle nella chiesa del Gesù di Roma per entrare ufficialmente nella “Compagnia di Gesù”. Lo raggiungiamo nella capitale dove ci racconta le emozioni e le motivazioni della scelta. «Mi sento pronto – dice -. Sono grato al Signore e a tutti quelli che mi hanno sostenuto. Tra un mese conoscerò la nuova destinazione. Credo rimarrò in Italia: ho chiesto di occuparmi di assistenza e aiuto ai poveri, ma anche di riflessione socio politica». In un decennio padre Cesare è stato a Padova (per il discernimento), Genova (due anni noviziato), Roma (studi filosofici), Palermo (magistero pastorale e insegnamento), infine 4 anni a Manila, nelle Filippine, per gli studi teologici dove lo scorso anno è stato ordinato diacono: «Un’esperienza illuminante».
Padre Cesare perché un brillante giovane promettente avvocato, fidanzato, decide di mollare tutto e di entrare nei Gesuiti?
«Sono attratto dalla vita religiosa fin da bambino. Al liceo ero affascinato dalla spiritualità e dalla vita francescana, ma per la giovane età e qualche resistenza in famiglia non ho proseguito. Non ero sicuro di quello che Dio voleva per me. La svolta fu un viaggio in Terra Santa dove ho fatto un’esperienza straordinaria di preghiera, ho sentito che Dio mi diceva: “Sei libero, vuoi fare l’avvocato, sposarti, avere dei bambini, vuoi fare la vita religiosa, per me va benissimo tutto, segui il tuo cuore”. Tornai a casa, parlai con la mia ragazza, lasciai la pratica di avvocato e mi rivolsi ai Gesuiti di Padova. Continuai invece il dottorato, ma con il noviziato mollai anche quello. Nonostante apparentemente avessi tutto – una persona che amavo e che mi amava, tanti amici, una carriera avviata – , dentro di me sentivo che non ero felice, che non mi stavo veramente realizzando».
Perché proprio i Gesuiti?
«Sempre in Terra Santa vidi mettere in pratica la spiritualità ignaziana, un modo di pregare basato sulla Parola in un diaolgo profondo di amicizia con Dio, cuore a cuore. I Gesuiti parlano a Gesù come ad un amico».
Che cos’è il voto di obbedienza al Papa?
«Al termine del noviziato a Genova ho pronunciato i primi voti – povertà, obbedienza e castità – che sono perpetui solo per chi li fa. L’Ordine religioso si riserva infatti di vedere come va il percorso. Dopo l’ordinazione del 2 maggio, la mia formazione continuerà fino ad un periodo chiamato “terz’anno” e fino agli Ultimi Voti. Solo lì arriverà la conferma ufficiale della Compagnia di Gesù che mi accoglierà definitivamente in Congregazione. Ai tre voti classici si aggiunge il cosiddetto “quarto voto” di obbedienza speciale al Papa. Il Pontefice può mandarti in missione ovunque nel mondo. Bisogna obbedire senza obiezioni. Si tratta di un passettino in più, una disponibilità ancora più grande».
Che cosa significa essere gesuita ai tempi di Francesco, primo papa Gesuita.
«Quando Francesco è stato eletto, è stato quasi uno shock. Ai quattro voti che ho analizzato prima, se ne aggiunge un quinto: non accettare dignità ecclesiastiche. Tutti i Gesuiti rinunciano, cioè, a diventare Vescovi. A parte quando il Papa te lo impone. La prima risposta però deve essere sempre no, per il voto preso. Che un gesuita diventasse Papa non è mai passato per la testa di nessuno, neanche di Sant’Ignazio. Francesco è profondamente gesuita, mi riconosco molto nella sua spiritualità, in tanti suoi gesti. Sento poi una certa responsabilità, la gente ha gli occhi su di noi, sento di dover dimostrare ancora di più come la nostra spiritualità possa essere un dono per la chiesa universale. Francesco è profondamente umano e non ha paura di mostrarlo. Paradossalmente è quello che dà fastidio a tanti, che vorrebbero una figura sacrale. Bergoglio fa vedere i suoi limiti, i suoi problemi, a volte sbaglia e non ha paura di ammetterlo. Questo è prezioso. È un’idea molto gesuita: il divino lo trovi nel profondo dell’umano. Il nostro è un Dio incarnato, ha assunto tutto – a parte il peccato – della vita umana».
Che cosa ha imparato dall’esperienza a Manila?
«Ho visto un mondo diverso. Ero l’unico europeo e ho assorbito tantissimo. Ho lavorato con i poveri e in un centro per senza fissa dimora. Lì il prete è un’istituzione, una persona da ascoltare e seguire, ma sono io ad essere stato evangelizzato. Ho imparato tantissimo dalla fede dei più poveri, dal loro sguardo di speranza e fiducia in Dio, nel futuro, nonostante le restrizioni e le fatiche. In Italia siamo rivolti a rimpiangere quello che era e fatichiamo a vedere il grande significato del tempo che stiamo vivendo e del futuro che possiamo costruire. C’è da ripartire da zero con l’evangelizzazione. La Chiesa è in cambiamento e la figura del prete deve essere rivista. La sua figura deve essere meno istituzionale, più umile, deve essere una presenza in ascolto, deve ripartire dal basso ascoltando e imparando dalle persone».
Domenica 16 maggio padre Cesare tornerà a Cresole per celebrare la prima messa da Gesuita alle 10.