Il 31 agosto ricorrono 10 anni dalla morte del cardinale Carlo Maria Martini avvenuta a Gallarate. È per me una memoria molto amata e il mio affetto non diminuisce col passare degli anni.
L’eredità di Carlo Maria Martini
Il 10 febbraio 1980 Carlo Maria Martini, gesuita e biblista torinese di 53 anni, fino a quel momento rettore della Pontificia Università Gregoriana, prende “possesso” della diocesi di Milano andando a piedi per le vie della città fino a raggiungere una piazza Duomo stracolma. Nella predica di insediamento, intessuta di riferimenti biblici portati come coni di luce a illuminare le circostanze, il nuovo arcivescovo parla più della città che della Chiesa, la città come “cuore della Chiesa e della diocesi”, non il contrario, e ne mette in evidenza la storica vocazione unificatrice, incoraggiandola a rimanere luogo della confluenza e dell’incontro soprattutto al momento storico in cui la violenza e il conflitto sembrano dominare gli eventi e minare gli animi.

Rileggendo lo sconfinato patrimonio di scritti e interventi di Martini, ci accorgiamo di quanto l’Arcivescovo fosse intriso di Scrittura: il suo linguaggio nasceva da una quotidiana familiarità con i libri della Bibbia, del Primo e del Nuovo Testamento. Sentiva forte la necessità di nutrirsi della Parola nell’impegno dell’evangelizzazione: questa era la sua priorità. Il primato della sua santità e della sua preghiera non è concepibile che a partire dall’assiduo e sempre rinnovato ascolto della parola di Dio che diveniva incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina che interpellava, orientava, plasmava la sua esistenza. Desiderava fare della Chiesa “la casa e la scuola della comunione”: non solo volersi bene a livello intraecclesiale, bensì volersi bene a livello ecumenico e interreligioso, proclamando che la carità deve aprirsi, per natura sua, al servizio universale, deve proiettarsi nell’impegno di un amore operoso e concreto verso ogni essere umano (la prima visita pastorale da nuovo arcivescovo la dedicò a visitare i carcerati di S. Vittore). Penso in particolare al servizio della pace. Più volte e con grande disappunto ripeteva: “Un ritardo che ci deve pesare molto (…) è il non aver considerato vitale la nostra relazione con il popolo ebraico. La Chiesa, ciascuno di noi, le nostre comunità non possono capirsi e definirsi se non in relazione alle radici sante della nostra fede e quindi al significato del popolo ebraico nella storia, alla sua missione e alla sua chiamata permanente”. Desiderava essere sepolto a Gerusalemme ma non le fu dato, perché colpito dal morbo di Parkinson, bisognoso di cura e assistenza specialistica.
Fu un eccellente evangelizzatore, un pastore vigilante. Divenne per tutti noi, per la Chiesa, un grande ispiratore del futuro. Convertito alla novità del Regno, fu capace di trarre fuori dal “tesoro dello scriba” (cf. Mt 12,35) delle novità coraggiose. Non fu un ripetitore del passato, ma uno che amava la Tradizione, che le fu fedele fino ai puntini sugli “i” e, proprio grazia di tale fedeltà, avendo convertito il suo cuore alla novità evangelica, sapeva pronunciare parole nuove, che attraevano la gente rendendola attenta, pensosa, scuotendola. I fedeli avvertivano un timbro nuovo, si accorgevano che non erano parole trite e ritrite, e nell’insieme dei suoi discorsi alla città e delle sue lettere pastorali annuali, si avvertiva una novità, un’incisività, una gioia, un gusto che coinvolgeva. Martini viene oggi considerato un grande pastore del post-concilio. A lui si può attribuire il titolo di “padre della Chiesa” del secondo millennio.
I ritardi della chiesa missionaria

L’8 agosto 2002, il cardinale gravemente malato, pronunciò alcune parole in una brevissima intervista, considerata una sorta di testamento spirituale. Con un filo di voce affermò: “La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi tu fare per la Chiesa?”. Questa intervista sembra intrisa di una malinconia quasi sintomatica e di un certo senso di resa che non offusca le ragioni della speranza ma che affidano a un indirizzo ignoto: “Vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza”. Nell’agosto 1983, in una meditazione intitolata “I ritardi”, e da lui stesso definita “rischiosa per il carattere embrionale dell’intuizione”, al fine di non dar adito a fraintendimenti, aveva precisato che “I ritardi si riferiscono a qualcosa che prende tutta la mentalità, l’epoca, il costume, la cultura ed è, quindi, difficile da oggettivare. Si tratta di affinare un “discernimento epocale” e non semplicemente di morale individuale o di gruppo. Commentò quattro tipi di ritardi riscontrabili nella primitiva comunità: il “narcisismo di Gerusalemme” (At 1-5); le “paure di Cesarea” (At 11,1-3); la “timidezza di Antiochia” (At 11,19); la “doppiezza di Pietro” (Gal 2,11-14). ”Dobbiamo dire”– così concludeva a seguito dell’approfondimento biblico – la forza dello Spirito operante nella storia rompe i nostri indugi. Non è semplicemente una conversione morale: è una conversione culturale, epocale, intellettuale che non dipende da noi. Non ci si arriva facendo o leggendo di più. Dobbiamo prepararci seriamente e preparare le nostre comunità a discernere e ad accogliere le vie di Dio. Le vie di Dio, nella Scrittura, sono le vie lungo le quali Lui viene a noi: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri” (Sal 25,4). Se non li rompe Lui i nostri indugi, noi non li romperemo mai o li riprodurremo indefinitamente”.
La “notte oscura” del card. Martini Richiamando le luci e le ombre del suo cammino di fede, l’Arcivescovo confidava al pubblico partecipante alla “Cattedra dei non credenti”: “C’è una prova che attende il credente e questa e questa lo insegue anche nel suo cammino di fede più maturo. È la prova del superamento della nube e del non senso. (…) Chiunque si sia lasciato attrarre dal dialogo di fede con Dio sperimenta, o prima o poi, o molto o poco, questi passaggi oscuri, questi vuoti di senso, nella sua vita e più ancora in quella altrui. (…). E il cardinale indica come la coscienza credente può superare le “notti oscure di senso”: “Mi pare che il superamento avvenga anzitutto in due modi. Anzitutto con il “movimento della fede stessa”. È il dinamismo stesso del credere, dell’affidarsi, che opera con una tenacia e con una invincibilità che hanno del prodigioso. Non lo si crederebbe se non lo si fosse vissuto. In secondo luogo, il superamento avviene perché, mediante l’”abbandono al mistero di Dio” che è propriamente la fede, noi ci sentiamo chiamati a non essere inerti, ma a dare senso noi stessi alle esperienze dolorose. Ci si accorge allora che situazioni che appaiono irrimediabili manifestano insperate aperture di solidarietà, di amicizia, di amore. Ma è solo buttandosi dentro che tali aperture si riscoprono. E questo coraggio continuo è esigente, è un dono, che però si paga, non può essere programmato a tavolino, chiede il quotidiano dell’affidarsi”. Trovandosi presso l’abazia S. Gallo in Svizzera all’ultimo incontro svoltosi dal 16 al 20 aprile con un gruppo di amici vescovi europei, mons. G. Giudici racconta: “Conversavamo tra noi due con quella libertà e confidenza che si ha dopo tanti anni di lavoro insieme e di vita comune. A un certo punto, il cardinale mi mormorò: “Dio si è dimenticato di me”. Questa parola è stata per me come fulmine a ciel sereno. Un’ansia penosa mi colpì. (…) Mi è parso di scorgere nell’esperienza che il card. Martini viveva in quel momento, e che aveva espresso con quella parola, il vivere quella personale fatica spirituale che viene chiamata “notte oscura”. La sofferenza che ho colto in quel giorno attraverso la frase di Martini ricordava dunque le sue riflessioni quando, parlando della morte, ci insegnava che il significato del morire poteva essere cercato nella resa piena e definitiva della creatura umana all’amore di Dio.
Carlo Maria Martini ha insegnato anche l’atteggiamento giusto davanti alla morte nostra e altrui.
Commenta