All’inizio di ottobre papa Francesco ha canonizzato Giovanni Battista Scalabrini, una figura di grandissimo significato per il mondo delle migrazioni. Dell’attualità di questo nuovo santo e del fenomeno delle migrazioni abbiamo parlato con il cardinale Silvano Tomasi, vicentino originario di Casoni di Mussolente, scalabriniano, una vita dedicata all’impegno della Chiesa a favore dei migranti. Lo accogliamo in redazione, accompagnato da Paolo Borin, avvocato e ambasciatore del Sovrano Militare Ordine di Malta presso la Repubblica d’Etiopia e l’Unione Africana.
Eminenza, lei è stato il primo segretario del Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti e degli itineranti, voluto da santo Papa Giovanni Paolo II. Ci racconti la sua esperienza. Cosa ha voluto dire la costituzione di questo Consiglio?
«Il fenomeno dell’emigrazione in queste decadi ha assunto proporzioni mondiali. Non si tratta solo dell’esperienza della fine ‘800 quando i Paesi europei erano particolarmente toccati da questo esodo di masse verso le Americhe e l’Australia, ma riguarda anche l’oggi. Viviamo un movimento continuo di persone dovuto soprattutto a cause economiche, disuguaglianze sociali, fughe dovute a violenza, alla guerra che produce milioni di rifugiati. Pensiamo all’esodo attuale dall’Ucraina e capiamo subito che le tante piccole guerre nel mondo, generano movimenti forzati di persone.
Il grande contributo dato dal santo Giovanni Battista Scalabrini è stato quello di far un passo molto importante: dare un’assistenza sociale e religiosa a queste persone sradicate dal loro ambiente. Lui aveva un cuore compassionevole e aveva trovato la strada che i governi non avevano ancora pensato per dare una dignità anche a queste persone. Fu importante in particolare la sua esperienza con i viaggi che fece per visitare gli emigrati italiani negli Stati Uniti (vedi foto grande) e in Brasile.
Egli capì che il problema non era solo degli italiani: non era la nazionalità che bisognava soccorrere, ma le persone che erano in necessità e guardando alla problematica degli emigrati italiani ha visto che il problema era uguale per tutti gli emigrati di ogni parte del mondo. Prima di morire nel 1905, Scalabrini scrisse un memorandum che sottopose a San Pio X. Chiedeva la creazione di un dicastero della Curia romana che si occupasse di tutti gli emigrati perché era un fenomeno che andava al là di una nazione e che riguardava globalmente la società umana».

Cosa decise Pio X?
«Pio X diede seguito a questa intuizione creando il primo Ufficio dentro la Curia romana per l’assistenza agli emigrati. L’ufficio poi si rafforzò soprattutto con Giovanni Paolo II che ha voluto, nella riforma che egli fece della Curia, creare un Pontificio Consiglio esclusivamente per l’assistenza a migranti, rifugiati e gente in movimento. Questa sensibilità è continuata con papa Francesco. Io mi sono trovato a lavorare soprattutto con Giovanni Paolo II in questo dicastero e a mettere in pratica l’attenzione della Chiesa a tutti gli emigrati attraverso anche contatti con le conferenze episcopali, incoraggiandole che ci fosse in ognuna una commissione di vescovi che si occupasse stabilmente dei problemi dell’emigrazione. Si è andati avanti seguendo le tracce originali del vescovo Scalabrini e traducendo nella realtà quotidiana quello che lui aveva scritto e pensato».
In un suo libro lei ha definito Scalabrini un pioniere nella solidarietà. La canonizzazione di Scalabrini è un modo per sancirne la grande attualità?
«Il fatto che papa Francesco abbia voluto canonizzare il vescovo Scalabrini è un segno della continua attualità delle sue intuizioni per quanto riguarda la pastorale e l’assistenza umana e sociale di questi milioni di persone. Parliamo almeno di 250milioni di persone che vivono e lavorano in un Paese diverso da quello in cui sono nati. Papa Francesco con Scalabrini ha fatto un’eccezione: l’ha canonizzato per equipollenza come dicono i curialisti. Anche se non c’era ancora l’accertamento del secondo miracolo ha voluto comunque procedere, seguendo altri precedenti, e crearlo santo lo stesso perché oggi più che mai c’è bisogno di riflettere e di portare avanti con forza le grandi intuizioni di Scalabrini. Per questo siamo tutti grati a papa Francesco».
In Europa tante volte sembra prevalere la paura. Come si può andare oltre la paura e riconoscere comunque nell’altro una ricchezza?
«Nel mondo attuale c’è una diversità enorme di stili di vita, di tradizioni culturali, di modi di operare e di vivere anche l’esperienza religiosa. Dobbiamo avere la capacità di trascendere l’aspetto superficiale della diversità e capire che abbiamo una radice comune che ci fa tutti uomini e donne con gli stessi problemi e le spesse aspirazioni. In tal modo possiamo trovare la strada per trasformare le diversità in arricchimento reciproco, senza cedere alla paura di invasioni che non ci sono, e per vivere la diversità con serenità, perché il risultato dell’incontro porta a passi nuovi. L’intuizione di Scalabrini è stata allargata dall’enciclica di papa Francesco “Fratelli tutti”. Se cresce la coscienza che siamo tutti uguali, che abbiamo tutti la stessa dignità, diventa possibile accettare le differenze e trasformarle in forza positiva.
Il problema dell’emigrazione non è tanto il numero delle persone, ma la capacità di accettarle e integrarle nel contesto sociale in cui vengono a trovarsi. Tale capacità di accoglienza è la base perché la presenza degli emigrati sia un contributo economico, ma soprattutto umano a creare un’identità che va al di là del nazionalismo e che abbraccia la famiglia umana come tale».
Tra Vicenza e gli scalabiniani c’è un rapporto speciale. Siete un dono particolare per la nostra terra. Cosa ne pensa?
«Uno dei due primi missionari scalabriniani, padre Mantese, era della diocesi di Vicenza. È stato mandato da Scalabrini negli Stati Uniti. È morto giovane, ma era considerato una santa persona dagli emigrati. Il rapporto tra Scalabrini, gli scalabriniani e la diocesi di Vicenza comincia quindi dalle radici, dall’inizio della congregazione. Se guardiamo poi la distribuzione dei missionari scalabriniani vediamo che i tanti che sono della diocesi o della provincia di Vicenza, come il sottoscritto, sono sparsi in tutto il mondo e danno un contributo concreto e quotidiano all’assistenza degli emigrati di molti Paesi, non soltanto agli italiani».
Dal suo osservatorio come vede la guerra russa-ucraina? Quale evoluzioni possono esserci?
«La guerra che il presidente Putin sta portando avanti è un peso non solo per l’Europa dell’Est o per l’Europa, ma tocca tutto il mondo perché le conseguenze del conflitto portano ad esempio problemi in Africa dove la mancata esportazione di grano causa fame in vaste zone del continente. Le responsabilità sono chiare, non si può prendere con la forza un pezzo di un altro Paese e dire adesso è mio! Ma dobbiamo ascoltare la voce di papa Francesco che incoraggia al dialogo. È assurdo oggi risolvere le questioni con la forza perché la forza poi genera interminabile violenza e la violenza distrugge il progresso. Abbiamo avuto lezioni molto forti in Europa con le guerre vissute in questo continente. Bisogna risolvere i problemi con la strategia di un dialogo sincero, mettersi attorno al tavolo e negoziare, negoziare ad oltranza sino alla soluzione. La voce del Papa è una voce per ora solitaria, ma traccia e indica una pista concreta per porre fine alla violenza e ai bombardamenti, alle morti continue di persone civili. Anche l’Ucraina deve avere il coraggio di dialogare».
Una delle sue ultime responsabilità è come delegato speciale presso il Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta (S.M.O.M). Che esperienza è questa per lei?
«È un’esperienza un po’ nuova e un po’ una continuazione degli anni come Nunzio presso le Nazioni Unite a Ginevra. L’Ordine di Malta è contemporaneamente un Ordine religioso e un soggetto di diritto internazionale riconosciuto dalla comunità degli Stati con tanti dei quali ha relazioni diplomatiche. È un’organizzazione molto efficace nel fare del bene, l’aiuto in tutto il mondo che dà ai poveri, agli sfollati, agli emigrati, ai malati è veramente straordinario. Il Papa ha voluto facilitare il necessario processo di rinnovamento dell’Ordine prendendo lui stesso in mano la questione e favorendo l’aggiornamento delle costituzioni e del codice che regolano la vita interna di questa gloriosa istituzione. Ho visto il gran bene che l’Ordine fa e bisogna preservare questa sua capacità di contribuire alla soluzione dei problemi che abbiamo nel mondo di oggi. È stata valorizzata l’originaria ispirazione religiosa che è il vero motore della componente operativa, per fare in modo che questa entità, con quasi mille anni di storia, continui ad operare efficacemente per il bene dell’umanità. Sostanzialmente è questo il lavoro fatto negli ultimi due anni in cui, per conto del Papa, sono stato impegnato in questa missione».
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