Ho impressione che facciamo sempre più fatica a capirci. A volte ripenso a quando all’inizio della pandemia dicevamo che “dopo” saremmo stati tutti migliori e mi viene da ridere, amaramente. Forse è accaduto ciò che il Papa temeva, forse per i più è stata davvero un’occasione sprecata. La verità è che tendenzialmente siamo tutti sempre più affannati e sempre più concentrati sui nostri piccoli interessi e tutto questo rende davvero difficile l’incontro e il dialogo con l’altro.
Per capirsi serve innanzitutto tempo. Tempo per ascoltare, per cercare di mettersi nei panni di chi si ha di fronte, per comprendere punti di vista diversi dai propri. E il tempo è indubbiamente il primo dei nostri problemi. Siamo sempre maledettamente di corsa. O almeno abbiamo la sensazione di esserlo e questo condiziona tragicamente il nostro approccio con il reale. Il sociologo tedesco Hartmut Rosa ha scritto pagine illuminanti sull’accelerazione e la conseguente alienazione che caratterizzano questo nostro tempo. E poi per “capirsi” è necessario saper mettere da parte i propri interessi, non essere meschini, ma magnanimi, come esortava l’Epistola di domenica scorsa. Se volete una riprova di tutto questo, osservate semplicemente come stiamo al volante e magari fatevi anche un esame di coscienza.
Dimmi come guidi e ti dirò chi sei. I limiti di velocità non li osserva quasi nessuno; in prossimità di una rotatoria i più, anziché rallentare, accelerano per poterla impegnare per primi; la segnaletica orizzontale pare non contare nulla (a scuola guida spiegavano che una linea continua in mezzo alla strada equivale ad un muro, ma i muri non vanno più molto di moda…); le frecce “le usano solo gli indiani”. Ma attenzione, non è meramente una questione di rispetto del codice della strada. Penso che qui si manifesti di fatto la considerazione che abbiamo degli altri: il più delle volte un impiccio nel raggiungimento del proprio obiettivo. E questo accade sulla strada, ma anche – per altro verso – sul posto di lavoro, in famiglia, nelle associazioni, non ne parliamo in politica, e a volte purtroppo perfino in parrocchia e nella Chiesa. Segno che a mancare non è solo il tempo, ma anche l’amore. Perché se ami, il tempo lo trovi. Che poi, corriamo tanto e tanto ci affanniamo per affermare noi stessi e i nostri progetti, ma con quali risultati?
Un amico mi raccontava di aver ricevuto un efficace appello alla conversione dal navigatore GPS della propria auto: avendolo impostato per raggiungere un cimitero di cui non conosceva l’esatta ubicazione, una volta giunto sul posto si è sentito dire “hai raggiunto la tua destinazione”. E allora? L’essere umano, nonostante la consapevolezza della morte, è votato davvero all’incomunicabilità, alla chiusura egoistica nei propri interessi, ad un triste e ripiegamento solipsistico? Le guerre in corso nel mondo e i quotidiani conflitti che tutti noi sperimentiamo di certo ridimensionano l’ottimismo antropologico post-conciliare.
Eppure il cristiano sa che la natura umana, per quanto ferita dal peccato di Adamo, dall’omicidio di Caino e dalla confusione di Babele, resta di fondo buona, perché creata da Dio e aperta all’azione redentrice della Grazia. E allora arriva Lui, lo Spirito Santo, che a Pentecoste ridona a tutti la possibilità di capirsi. Non lo fa riunificando i linguaggi, ma facendo sì che ognuno si apra alla comprensione delle parole dell’altro, in una diversità non più avvertita come ostacolo e pericolo, ma come risorsa e possibilità. Dio solo sa quanto l’umanità intera (e in essa ciascuno di noi) abbia bisogno di tale Spirito per far morire l’uomo vecchio e far nascere l’uomo nuovo. Anche in tangenziale alle 8 di mattina.
Alessio Graziani