In primo piano Intervista

La durezza dell’Avvento per risvegliare la speranza più vera

di Andrea Frison

L’ Avvento “non è un pranzo di gala”. Mutuiamo questa espressione da Mao Tse-Tung che la utilizzava riferendosi alla “rivoluzione”, perché sembra che possa ben adattarsi anche al periodo che precede il Natale. “Il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio”; “Razza di vipere!”; “Il giudice è alle porte”; “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del figlio dell’uomo”. Questi versetti tratti dai brani delle sacre scritture che scandiscono le domeniche di Avvento sono quanto di più distante da ciò che siamo abituati ad associare al periodo natalizio: le vie illuminate, le cioccolate calde, i canti tradizionali (nostrani o di importazione, non importa), la corsa ai regali, i pranzi in famiglia, gli “a Natale siamo tutti più buoni” e via dicendo. «Non dobbiamo cadere nell’inganno che il tempo di Avvento e di Natale sia il periodo “dolce” dell’anno liturgico. Ci sono passaggi nelle scritture tutt’altro che consolatori, duri, a tratti violenti». A dirlo è Alberto Vela, biblista e responsabile editoriale delle Edizioni Messaggero, con il quale abbiamo affrontato la liturgia delle quattro domeniche di Avvento per evidenziare i passaggi più “scomodi” della Parola di Dio che accompagnerà i fedeli nelle prossime settimane.

Il biblista Alberto Vela.

Vela, a leggere le letture dell’Avvento non sembra Natale ma l’Apocalisse. I toni sono duri, le immagini escatologiche. Si parla di fine dei tempi quando siamo all’inizio della storia dei Vangeli. Sembra che qualcosa non funzioni: come si spiega?

«Intanto precisiamo che l’Avvento non è la preparazione al Natale come la quaresima lo è per la Pasqua. O meglio, lo è solo nell’ultima parte, dal 16 al 24 dicembre, quella che viene tradizionalmente chiamata “novena”. Il resto è un richiamo ai cristiani perché non dimentichino un fatto fondamentale: non tutto finisce in questo mondo che avrà il suo compimento con il ritorno glorioso di Gesù. Questo è l’Avvento di cui ci parla il tempo di Avvento: non la nascita di Gesù, ma il suo ritorno alla fine dei tempi che potrebbe essere in qualunque momento. Non a caso la prima domenica di Avvento coincide con l’inizio del nuovo anno liturgico e la prima cosa che ci viene ricordata è proprio il destino di tutto. In questo senso non dobbiamo stupirci se nelle prime domeniche di Avvento le letture appaiono più tese a scuotere che a consolare».

La prima domenica di Avvento è un invito a “svegliarsi”. Perché?

«Oggi come allora ognuno di noi è impegnato nelle proprie legittime occupazioni, il problema è fermarsi un po’ a riflettere per essere consapevoli di ciò che stiamo vivendo. Oggi anche la psicologia e le tecniche di meditazione insistono molto su questo: essere consapevoli, presenti in quello che si vive, fare chiarezza. Nel linguaggio biblico-spirituale si dice “svegliarsi dal sonno, essere vigilanti”. Gli eventi drammatici sono un’occasione per svegliarsi. Noi veniamo da decenni in cui vivevamo tranquilli e illusi che malattie e guerre fossero alle nostre spalle o molto lontano da noi. Invece ci siamo accorti che la precarietà riguarda tutti e anche noi. Tutto questo “sveglia” il cristiano e gli pone alcune domande: che senso ha quello che faccio? che cosa sto davvero attendendo? Se oggi la mia vita finisce, cosa mi resta, cosa lascio? Un messaggio poco consolatorio, è vero, ma efficace per scuoterci».

Nella seconda domenica incontriamo Giovanni Battista, un uomo che fin dall’abbigliamento e dalla dieta risulta “respingente”. Per non parlare di quello che dice…

«Usa espressioni molto dure, parla dell’arrivo del messia in termini “violenti” per richiamare alla conversione, perché ci esaminiamo e tagliamo i rami secchi (ciò che non ci dà vita, ma ce la ruba) dalle nostre esistenze. La seconda lettura però ci dice come leggere anche le parti più ostiche della Bibbia: “perché in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza”. La Scrittura vuole farci prendere coscienza di “dove siamo” esistenzialmente e rimetterci in cammino dandoci speranza. E infatti nella prima lettura abbiamo gli annunci del tempo messianico: profezie di grande pace e consolazione, come quella del lupo che dimora con l’agnello. Ma allora perché c’è anche un passaggio in cui si descrive il messia come colui che percuoterà il violento e ucciderà l’empio? L’idea di un messia totalmente misericordioso era ancora inconcepibile quando il profeta scriveva, sarà la novità assoluta di Gesù».

Nella terza domenica di Avvento l’invito è a rallegrarci, eppure il Vangelo ci presenta un Battista sbattuto in prigione. Perché?

«La terza domenica di Avvento è la chiave. Gesù descrive il Battista come “il più grande tra i profeti”, eppure perfino lui deve mettere in discussione la sua fede, la sua idea di messia. Ne aveva annunciato uno terribile e invece arriva Gesù che indossa gli abiti del messia misericordioso. Giovanni va in crisi al punto da mandare i suoi discepoli ad informarsi se è proprio Gesù “colui che deve venire”. Gesù risponde loro con i segni che contraddistinguono i tempi messianici: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono purificati, ai poveri è annunciata la buona notizia… Qual è dunque la differenza che porta Gesù? È questa attenzione agli ultimi di qualunque categoria. Vengono posti al centro. Non dobbiamo andare lontano per capire chi sono i poveri oggi perché viviamo in un tempo in cui vengono criminalizzati, in cui diventano “carico residuale”. Diciamolo chiaramente: il cambiamento portato da Gesù è soprattutto attenzione ai poveri. E questo deve caratterizzare i suoi seguaci, i cristiani. Come comunità cristiana non possiamo rimanere senza parole e senza azioni di fronte all’ingiustizia verso i poveri. E tutto questo senza esimerci da una lettura più spirituale: quali sono le “schiavitù” dalle quali il messia ci viene a liberare? Sicuramente l’incapacità di amare, di riconoscere l’amore di Dio. E qui ci viene in aiuto la seconda lettura, una parola bellissima per chi è smarrito, presa dalla lettera di Giacomo: guardare all’agricoltore. Un invito che in quest’anno di siccità ci risuona in maniera forte. L’agricoltore fa tutto quello che può fare, ma poi sa che deve aspettare, che non gli rimane altro che attendere e pazientare perché i tempi non sono nelle sue mani».

Arrivati alla quarta domenica, un po’ di tenerezza ci viene concessa?

«La quarta domenica di Avvento è quella che prepara al Natale. C’è un livello di dolcezza e di tenerezza che fa bene ed è giusto gustare. Ma non è una consolazione a buon mercato, non è un “andrà tutto bene”. La consolazione viene da un messia che mette al centro l’ultimo, il povero e ognuno di noi nella misura in cui capiamo che siamo noi stessi poveri: mendicanti di senso. Da una parte abbiamo la profezia di Isaia sulla nascita dell’Emmanuele, il “Dio con noi”. Dall’altra abbiamo il vangelo di Matteo che racconta come avviene questa nascita dal punto di vista di Giuseppe, un ragazzo che aveva i suoi progetti e si vede scompaginare tutto, ma ha la capacità di aderire a quello che accade nella sua vita, di riconoscere Dio che gli parla nelle vicende e nel profondo (i sogni)  di ogni giorno. Il messaggio è proprio questo: nell’imprevisto, anche il più difficile, spesso c’è un messaggio da parte di Dio per noi: lì, nelle pieghe difficili della storia, lui diventa “Dio con noi”. Di questa compagnia abbiamo davvero bisogno. Il Natale ci racconta questa compagnia!».

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