Anche in questo Natale contempliamo, con gli occhi pieni di stupore, il presepe. È lo spettacolo straordinario e paradossale dell’Incarnazione del Figlio di Dio: il Bambino che viene dall’Alto, nasce e cresce in un mondo comune, feriale. Di questo mondo è componente essenziale il lavoro. Numerosi passaggi dei Vangeli ci ricordano come Gesù sia chiamato “il figlio del falegname” (Mt 13,55) o addirittura venga indicato egli stesso come “il falegname” (Mc 6,3). Non è solo descrizione, quanto una precisa identificazione. E non può essere altrimenti visto che il lavoro è una dimensione fondamentale dell’essere umano.
Il lavoro ha in sé una dimensione di concretezza irrinunciabile che diventa il banco di prova e la manifestazione dei nostri ideali. Attraverso di esso ci è riconosciuta una responsabilità primaria nel custodire e far crescere la creazione. Eppure ci sono anche tante fatiche e incertezze legate proprio alla dimensione lavorativa che per molte persone rappresenta un drammatico problema che assume i nomi di disoccupazione, precariato, assenza di tutele, lavoro festivo.
Nella scena della nascita di Gesù possiamo vedere simbolicamente rappresentate queste situazioni di sofferenza. Penso alla sacra famiglia: alla generosità e alla fede di Maria, sorella di tante mamme che, come lei, hanno responsabilità troppo grandi e situazioni troppo pesanti da portare da sole. Penso allo sposo Giuseppe, artigiano onesto e laborioso, preso da Dio per “custodire la vita di suo Figlio”. Quanta gente coraggiosa incontro anche oggi, mamme e papà che, nonostante le fatiche della vita, di progetti ne fanno e sono orgogliosi delle piccole e grandi imprese per piantare una famiglia, crescere dei figli, costruirsi una casa e lavorare con onestà. Non sono famiglie vicine a quella di Nazareth?
Il presepe poi è popolato dalla presenza dei pastori i primi che vedono il bambino Gesù. Sono semplici lavoratori, con una vita precaria. Ricordando le loro figure il pensiero va a chi nel lavoro non trova garanzie adeguate. I segnali di ripresa che si registrano non valgono per tutti: tanti non hanno ancora un’occupazione stabile e dignitosa, o rischiano di perderla. Come le lavoratrici e i lavoratori della ‘Lovato-Gas’ che – di fronte alla decisione di “delocalizzare” la loro azienda – da settimane lottano per difendere un posto in cui si sono spesi per anni. Penso con inquietudine ai tanti giovani che non possono progettare il futuro perché senza una professione stabile o uno stipendio adeguato.
Nel Vangelo della nascita si racconta di tante porte chiuse alla famiglia di Nazareth. «Non c’era posto per loro …», dice il Vangelo (Lc 2,7). Pensando al mondo del lavoro, le porte chiuse sono quelle delle opportunità negate. Porte chiuse sono le politiche che proteggono più la finanza che un’economia fondata su un lavoro dignitoso per tutti. Porte chiuse sono le mancanze di solidarietà con quanti subiscono ingiustizie e sono costretti a vendere se stessi a qualsiasi prezzo pur di conservare un’occupazione costantemente in sospeso. Porte chiuse sono dovute anche alla sete di guadagno che costringe tante donne al lavoro nei giorni di domenica e delle feste, col risultato che per tenere “sempre aperti” i mercati del consumo aumentano le porte “sempre chiuse” delle case, svuotate del legittimo e necessario riposo.
La scena evangelica del Natale ospita anche personaggi tristemente violenti. Il Natale, allora, può diventare allora occasione per riconoscere tutte le violenze che l’attività lavorativa può infliggere a realtà fragili e indifese: è il caso del lavoro minorile, dello sfruttamento dei migranti, dell’inquinamento, in particolare delle falde acquifere (si pensi alla questione Pfas), dello sfruttamento sconsiderato del suolo.
A Betlemme, davanti a una semplice ragazza e a un umile artigiano di Nazareth, i Magi depongono infine doni preziosi. La consapevolezza del lavoro come fattore fondamentale di dignità della persona e della comunità sia il “dono” primo che ci facciamo in questo Natale, in cui contempliamo il mistero dell’Incarnazione nel volto di Gesù.
Auguro a ciascuno di trovare nel Natale anche il dono di poter apprezzare il proprio lavoro, vera vocazione per tutti. Il volto di Gesù è anche il volto di un lavoratore, quello del “figlio del falegname”. Anche noi il volto che mostriamo, per tanto tempo delle nostre giornate, è proprio quello del lavoro. Dio accolga anche noi come lavoratori del suo Regno di giustizia e di pace.
L’augurio si fa speciale per coloro che non lavorano, che cercano e non trovano, che rischiano di perdere un diritto fondamentale. Natale aiuti tutti a sentirsi meno soli nell’affrontare le tribolazioni di ogni giorno. Anche noi siamo personaggi adoranti sulla scena del Presepe dove solo, davanti al Dio Bambino, ci è data la vera gioia.